Decade dei Calibro 35. Al di là del genere

Non mero revival, che ha sempre un che di statico (come la posa ottusa, inconsapevole di un manichino che sfoggia camicie vintage), un che di necrofilo, improduttivo sul piano del progresso, come dire, ermeneutico del proprio tempo (che poi è progresso tout court, politico, sociale, possibile solo all’interno dei processi di continua re-definizione e fruizione dei linguaggi più disparati); ma ripresa di modalità, stili, sonorità dotate di una loro alta, spessa dialettica, che sono quelle proprie degli anni Settanta: questa alla fine mi pare l’essenza dei Calibro 35, tutta una materia audiofonica con naturali inferenze video, relative alla congruità di forme sonanti e all’immaginario di quegli anni, che perciò appare in qualche modo la stessa sostanza di un approccio di tipo tarantiniano, cioè come creazione di senso inedito, inaudito, a partire dalle forme più significative del passato, ora rimaneggiate, decontestualizzate.

È quel legame strettissimo esistente tra cinema e musica in quegli anni, tanto che la colonna sonora tendeva spesso a prevalere nell’equilibrio espressivo del film e di lì poi, da cinema a cinema – luogo di promiscuità, interscambio, reinvenzione dei linguaggi –, all’interno del costume, proprio di certa antropologia, a cui si riferiscono tra l’altro Giona Nazzaro e Marco Pecorari in un libretto uscito per «Rumore» proprio in contemporanea alla pubblicazione di Decade, dal titolo Dischi al di sopra di ogni sospetto, in cui si delinea questa cultura “di genere” per via di una compenetrazione tra forme molto connotate di musica (partiture sofisticate, trame veementi di mistero, narrazioni in musica di polar) e immagini che assorbivano appieno il funk, l’odore delle colonne sonore. Quello stesso che in continuità con i dischi precedenti dei Calibro 35 si respira, si vede in Decade, soprattutto nel lato A, specie di compendio di questi dieci anni di attività del gruppo, comprendendo però anche quello che verrà, che viene già, se poi sboccia Pragma, andante verso un iperuranio senza storia. Perciò Psycheground, Superstudio, Fasten Fasten! sono apoteosi “di genere”, qualcosa come una sinestesia che turbina in un immaginario per lo più giallo, e quindi non suona più ma mostra, attraverso il clamoroso intrigo di fiati, il Clavinet baldanzoso, il continuum gommoso, colloidale dei vari synth, per un funk che esala dall’asfalto delle strade di Milano o di San Francisco. Poi viene la melopea, un che di fatato, un’inquietudine di flauto e waterphone in Modular, nel moto che lo porta da una casa ai margini del bosco – finestre, specchi opachi – dentro un’oscurità d’alberi di cristallo.

 

 

Ma fuori da questa maniera di fiati sorge Pragma sul pelo dell’acqua, la chitarra, l’arpeggio illimpidito dalla flagranza delle percussioni (come il cambio di ritmo in Agonica o in Modo, di gran cassa); ora scoccante, andante in filigrana di drum&bass, che anticipa ciò che accadrà nel lato B, cioè il transito appena fuori dalla Storia, sollevandosi dal terreno degli anni Settanta, verso una dimensione atemporale, un’attualità astratta, in linea con i più stupefacenti progressi musicali (cioè poetici, politici) degli ultimi anni, tali proprio in virtù di un’infrazione, decostruzione, mescolanza dei generi, da Unkle, soprattutto l’ultimo capolavoro The Road (ma che dire poi dei remix eseguiti da Future Beat Alliance di Heavy Drug e Natural Selection?) agli Heliocentrics, a Floating Points, ecc.. Del resto ora la congiuntura avviata da Pragma (e che si ricongiunge, in quanto a programma politico, a Ungwana Bay Launch Complex del precedente S.P.A.C.E. specialmente in via di rif elettronico), questo rinvenimento di una zona astorica in cui germina la dialettica strumentale più progressiva, un’invenzione costante di proposizioni musicali, orchestrazioni, arrangiamenti; porta ancora in sé elementi di quel genere, vi ritorna a tratti in sentori di wurlitzer o di tromba, per poi tornare ad assolutizzarsi in partiture ultramoderne. In questo Pragma allora si fondono space, jazz e psichedelia in un intrico di strumenti (trombe in  tenuta jazz, affioramenti xilofonanti, arabeschi d’eko tiger, ecc.), uno dopo l’altro, uno dentro l’altro, sopra uno sfondo che lamenta, spasima di lamiera, di corde tirate; e ancora il waterphone se non sbaglio, che poi enuclea presenze diafane, fantasmatiche, come un rantolo di ectoplasmi, nello psichedelico Polymeri, altro esempio di questa dialettica astorica, suggellata poi da Travelers, cioè da un accoramento d’archi, che per tutto il disco avevano già sprigionano struggimento proprio in contrappunto all’azione dei fiati. E allora i grumi residui di un passato di genere si sciolgono nel tragitto di un treno al tramonto, dal finestrino, come una danza di uccelli esplosa all’improvviso da dietro una coltre di cumuli, lasciando scie, presagi d’astri; una fuga, la distanza: come la nostalgia per tutto quello che potrebbe venire.