Designated Survivor, quando il Presidente è uno di noi

Durante il Discorso sullo stato dell’Unione quando il Presidente degli Stati Uniti parla davanti al Congresso riunito nella sua totalità, per legge un membro del governo viene portato in un luogo segreto perché, in caso di attacco terroristico, possa assicurare la continuità. In gergo si chiama “Designated Survivor” o “Designated Successor”, il sopravvissuto (o successore) designato ed è stato introdotto durante la Guerra fredda. Cosa sarebbe successo se fossero diventati Presidenti Larry Summers (2001), Alberto Gonzales (2007), Shaun Donovan (2010), Ernest Moniz (2014), Jeh Johnson (2016) o, per stare in tempi più vicini a noi, se lo fosse diventato Orrin Hatch, senatore dello Utah, e “designated survivor” per la cerimonia di insediamento di Trump? È la domanda che deve essersi posto David Guggenheim, creatore della serie Designated Survivor in onda su Netflix.

Il pilot inizia proprio con il protagonista in un bunker: è vestito con una felpa della Cornell University e guarda in Tv il discorso del Presidente, anticipandone le battute fino al momento in cui salta il collegamento. Il Campidoglio è isolato e, aprendo la finestra, l’uomo vede che c’è stata un’esplosione devastante.  Con un flashback si va a quindici ore prima per fare la conoscenza del sopravvissuto designato ovvero Tom Kirkman, Segretario alla Casa e allo Sviluppo Urbano, un indipendente che si è sempre battuto per le cause perse (nella fattispecie trovare un’abitazione a chi non ce l’ha). È sposato con Alex, anche lei in prima linea nel difendere i deboli visto che è un avvocato che si occupa dei rimpatri forzati (ma è anche esperta di diritto costituzionale). Hanno due figli, la piccola Penny e Leo, adolescente irrequieto che sta prendendo una brutta piega. Proprio quel giorno Tom è stato informato dal Presidente Richmond in persona che il governo gli vuole affidare il ruolo di Ambasciatore per l’organizzazione dell’aviazione civile à Montréal. Detto senza troppi giri di parole è stato fatto fuori perché troppo schietto. Ma questo succedeva una vita fa. Adesso il Paese ha subito un devastante attacco, «il più grande atto terroristico dopo l’11/9», quindi Kirkman giura sulla Bibbia diventando Presidente degli Stati Uniti. Lui è il primo a non sentirsi all’altezza del ruolo: «Non sono la persona giusta», dice, e si chiude in bagno a vomitare. E i commenti intorno non sono teneri: «È l’ultima ruota del carro», «Kirkman è un gregario, a noi serve un leader», «È praticamente un agente immobiliare». Ma quando il Paese chiama, bisogna rispondere e il pilot si chiude con il buon Tom che si rivolge a «My fellow americans…».

Una serie, incentrata sull’uomo comune che viene a trovarsi in una situazione eccezionale e che cerca di farsi guidare dal buon senso e dalla sua buona fede in un mondo, Washington, dove le promesse non vengono mai mantenute e dove è la logica di potere a dettare legge. Negli Stati Uniti è andata in onda tra settembre e dicembre 2016 conquistando oltre 6 milioni di telespettatori (la seconda stagione partirà l’8 marzo, in Italia dal 29 marzo). Per certi versi una serie profetica o quantomeno capace di intercettare molti segni dell’imminente presidenza Trump con scenari che solo fino a qualche mese fa potevano sembrare apocalittici, ma che ora stanno diventando tristemente reali. Prima tra tutte la questione dei rifugiati e degli immigrati. Dalle prime indagini sembra che dietro l’attacco ci sia Al-Sakar, l’ultima ramificazione di Al Qaeda, cosa che porta i falchi a esultare («Abbiamo il nostro nemico») e a chiedere una risposta di forza. Ma per dichiarare guerra Kirkman vuole la certezza assoluta e non gli basta il 75% di probabilità. Questione di punti di vista: per il governatore del Michigan, lo stato con la più grande comunità islamica del Paese, è più che sufficiente per iniziare una campagna di aggressione contro i musulmani tanto più che non riconosce il nuovo Presidente («Sopra di me non c’è nessuno. Non è il mio Presidente»). Proprio in questa situazione Kirkman dimostrerà di essere molto più astuto e abile politico di quanto si pensasse.

Tutti i personaggi – notevole il cast – appaiono ben delineati: la sodale moglie (Natasha McElhone); il sensibile e intelligente Seth Wright (Kal Penn), speech writer del presidente promosso a portavoce della Casa Bianca; i due più stretti collaboratori, lo scaltro Aaron Shore (Adan Canto) e la devota Emily Rhodes (Italia Ricci), che si danno battaglia per essere nominati a capo dello staff del Presidente; l’opportunista deputata repubblicana Kimble Hookstraten (Virginia Madsen); la determinata Hannah Wells (Maggie Q), agente dell’FBI che nutre più di un dubbio in proposito all’origine dell’attentato e approfondisce le indagini con mezzi non sempre legali. Ma su tutti c’è lui: lo sfaccettato Presidente Kirkman, un inedito Kiefer Sutherland. Una bella sfida perché, dopo averlo conosciuto e apprezzato nei panni di Jack Bauer, protagonista di 8 stagioni di 24, ritrovarlo dall’altra parte della barricata, in un ruolo poco d’azione e molto di tattica e pensiero, fa un certo effetto. Lui stesso ha dichiarato che non era nelle sue intenzioni tornare sul piccolo schermo, ma non ha potuto farne a meno una volta letta la sceneggiatura, diventandone anche produttore esecutivo. Una sfida vinta da tutti i punti di vista.