Death House. La riscoperta del proto-slasher

La tradizione vuole che il sottofilone slasher conosca la sua progenitura nella notte di Halloween del 1978, teatro delle gesta del Michael Myers carpenteriano; spingendo più indietro le lancette dell’orologio si arriva direttamente alla calda estate del 1960, quando Norman Bates onorava la memoria della madre indossandone panni e parrucca in Psyco. Ma ancora abbastanza inesplorata resta la zona grigia intermedia: alcuni film giacciono nel limbo dei dimenticati (La città che aveva paura), altri ancora non hanno mai goduto di formale distribuzione, e salvo qualche eccezione meritoriamente tornata alla ribalta negli ultimi decenni (L’allucinante notte di una babysitter e, soprattutto, Black Christmas), squarciare il ventre oscuro dei Settanta a filo di coltello resta un’impresa ancora in grado di rivelare sorprese. A colmare una parte del vuoto ci pensa la collana Opium Visions della Penny Video, che ora porta in Italia uno dei prototipi più interessanti, Death House, uscito nelle sale americane nel 1972, ma girato due anni prima da Theodore Gershuny dopo lo sfortunato esordio di Kemek, che era stato rilasciato dai distributori per rientrare nell’investimento, nonostante la lavorazione fosse stata interrotta anzitempo. Fra l’ansia di ottenere un successo sicuro e la voglia di dimostrare finalmente le proprie capacità, Gershuny compone un’opera ondivaga e visionaria, che in ossequio alla propria natura di prototipo può non arrendersi alle convenzioni di un genere ancora non codificato, e divertirsi anzi a sperimentare soluzioni visive di gran gusto, giocando con i contrasti fotografici e gli andirivieni temporali: la vicenda si snoda infatti tra gli anni Trenta in cui si consuma il trauma scatenante l’orrore, il 1950 su cui si apre il racconto, e il presente deputato a svelare la verità, mentre i protagonisti cercano di vendere e abbandonare così la “casa della morte”, teatro dell’intera vicenda e custode di tutti i segreti.

 

 

 

L’aspetto formalmente più interessante, in fondo, è proprio questa capacità di anticipare e al contempo aggirare le convenzioni, grazie a un presente ritratto con i colori lividi della cittadina di provincia abbandonata al proprio sonnolento vivere, e alla malinconica voce fuori campo della protagonista Diane Adams, che tara il tono del racconto. La peculiare cifra horror, affine per certi aspetti al coevo cinema di Dario Argento, sembra così reagire all’inerzia delle sezioni più descrittive, e ritaglia spazi allucinati che riscrivono il destino di ogni figura, con ampio uso di grandandoli, viraggi, soggettive e macchina a mano, per esaltare la precarietà di un mondo dove nessun personaggio è ciò che sembra. Il progressivo disvelarsi delle verità, passa quindi in rassegna un assortito campionario all’insegna del tipico eros e thanatos, che riequilibra una storia altrimenti destinata a ritrovarsi unicamente nelle scelte visive: è un film di contrapposizioni, in fondo, scisso fra l’umanità dei protagonisti e la sovrastrutturazione di genere, tra la fissità dello spazio scenico determinato dagli interni della cittadina e il proscenio fornito dalla Death House, e le porzioni di inquadratura ritagliate di volta in volta dalle luci o virate verso epoche e mondi altri dalle scelte di regia. Senza dimenticare gli accostamenti di casting pure spiazzanti, dove un veterano come John Carradine si accosta all’ex Chelsea Girl Mary Woronow (moglie dello stesso regista e già in Kemek), che a sua volta ha coinvolto nel progetto molti colleghi che avevano militato con lei nella factory di Andy Warhol. È anche grazie a loro se dietro la struttura del thriller più tradizionale si respira una cifra underground in grado di rendere l’esperimento degno della migliore riscoperta. La particolare natura sospesa dell’opera trova infine curiosa conferma nel suo particolare destino distributivo: catalogata da IMDB con il titolo Night of the Dark Full Moon, è in realtà più nota con quello di Silent Night, Bloody Night destinato però inevitabilmente a confonderla con il Silent Night Deadly Night del 1984 (da noi Natale di sangue) o con Silent Night, Evil Night, in realtà titolo alternativo del già citato Black Christmas. Bene dunque la scelta di Opium Visions di avvalersi del più icastico e funzionale Death House. L’edizione DVD è unicamente in lingua originale con sottotitoli in italiano e – accanto a una breve intervista alla Woronov – vanta un artwork esclusivo realizzato dalla disegnatrice Fabiana Trerè, autrice del fumetto Black Death, giusto per proseguire l’assonanza dei titoli.