Hunters: vendette ebraiche e scaglie di nazismo nel corpo dell’America

Come un po’ tutte le serie, anche Hunters ha quel magnetismo un po’ fasullo che le rende sospette. Ma il progetto è quanto meno curioso e merita che gli si dedichi almeno il tempo dei 10 episodi (una media di 60′ ciascuno, a parte i 90′ del primo) di questa prima stagione, rilasciata su Amazon Prime a fine febbraio. Jordan Peele la firma produttivamente, ma per quanto il plot della doppia realtà e della stratificazione razziale della società gli siano congeniali, il regista di Get Out e Us in realtà ha solo validato un prodotto creato da David Weill. Che è praticamente un John Doe, arrivato a Los Angeles da Long Island via Harvard, riuscito a far convergere un bel po’ di energie produttive (Al Pacino compreso) sulla strana idea di una serie che racconta di ebrei cacciatori di nazisti nell’America degli anni ’70, tenendosi in bilico tra arditezze fumettistiche, accensioni tarantinate in quota ingloriosi bastardi, languori vintage shakerati con misteriosi complotti degni dei Duffer Bros. e warning spettacolari sul pericolo neonazi che striscia sotterraneo nei nostri giorni.In tutto quasi 11 ore (645′ per la precisione) di eroico revanscismo ebraico, parlato in un inglese abbondantemente innervato di lessico e accento yiddish, sostenuto da un ironico disprezzo per il potere WASP che innerva gli States e sviluppato in fantasiose articolazioni di eventi storicamente accertati.

 

 

 

Alla base del plot c’è infatti la suggestione che, a seguito dell’Operazione Paperclip (con la quale alla fine della WWII i servizi segreti portarono in America le più brillanti menti naziste per evitare che fossero accaparrate dai sovietici), gli States sono diventati la culla del Quarto Reich. Su questo scenario si muove una serie di personaggi che hanno quasi la caratura plastica di vere e proprie action figures (del resto la opening sequence della serie, che muove su una scacchiera i protagonisti miniaturizzati in pedine, orienta in tal senso lo spettatore). Hunters si costruisce drammaturgicamente sul confronto in parallelo tra la generazione dei sopravvissuti alla Shoah, incarnata dal vecchio Meyer Offerman (Al Pacino), e gli ebrei americani di prima generazione, cui appartiene il protagonista, il giovane Jonathan Heidelbaum (l’ex Percy Jackson Logan Lerman). Siamo alla fine degli anni ’70, quindi a una trentina di anni dalla mortale tragedia seminata dal nazismo sul mondo intero e sul popolo ebreo in particolare: un tempo sufficientemente breve per lavorare su ferite ancora aperte, memorie ancora non rimosse, paure e rancori ancora vivi. Sicché il tema della preservazione della memoria, di là da venire, si incarna nell’odio ancora vivo e vegeto di chi è sopravvissuto nei confronti dei carnefici, aprendo ferite purulente. David Weill sceglie dunque la strada performativa della narrazione seriale facendola lievitare dall’impasto di cultura pulp e germinazioni action inventato dal Tarantino di Inglorious Basterds e sviluppandola in uno scenario sociale americano in cui la stratificazione razziale gioca un ruolo non secondario. Ecco allora che gli Hunters guidati da Meyer sono per metà espressione di una sofferenza profonda, cullata dietro il filo spinato dell’Olocausto, e per metà frutto dei nodi problematici sviluppati dal corpo sociale americano in quegli anni ’70 che andavano finalmente sganciando davvero il paese dalle dinamiche postbelliche. Ecco quindi che nella squadra allestita dal vendicativo Meyer ci sono Murray e Mindy Markowitz (Saul Rubinek e Carol Kane), una coppia che coltiva un dolore profondo nelle memorie della Shoah, ma anche la nera Roxy Jones (Tiffany Boone), una attivista del black power, e Joe Mizushima, un asiamericano reduce dal Vietnam. Completano il gruppo Lonny Flash (Josh Radnor) attore della New Hollywood (che odia il rivale Richard Dreyfuss…) e Sister Harriet (Kate Mulvany) un ex agente del MI6 che si spaccia per suora.

 

 

L’impianto della serie è costruito sul doppio livello di realtà che ogni elemento esprime, quello legato alla vita reale e nutrito dalle problematiche storiche e sociali attuali, e quello legato al sottofondo portato dai vissuti privati custoditi e combattuti dai personaggi. La lotta è insomma tra la realtà che disegna il suo scenario e i fantasmi che il passato evoca nel presente, producendo un continuo gioco di svelamenti e minacce che la progressione narrativa seriale scandisce di episodio in episodio, con continui e anche eclatanti capovolgimenti di campo. Strategia che appare evidente sin dall’incipit del primo episodio, in cui lo scenario puramente americano del più classico BBQ viene ribaltato dal doppio corpo di Biff Simpson, sottosegretario doppiogiochista di Jimmy Carter interpretato da Dylan Baker, eccellente presenza di memoria solondziana. Biff Simpson è la classica testa di ponte del controcampo nazista che opera in Hunters, in cui militano tra gli altri il Colonnello interpretato da Lena Olin e il giovane nazi americano Travis Leich interpretato da Greg Austin. Il punto di equilibrio tra queste due facce oscure della realtà sono Millie Morris, agente FBI nera irregimentata e gay repressa, che indaga sugli eventi, e soprattutto il protagonista della serie Jonah Heidelbaum, che è il vero corpo sacrificale ebraico offerto alla preservazione dei rancori. Il suo percorso di formazione personale finisce col coincidere con l’accesso ai segreti della squadra degli Hunters, bruciando l’umanità e la semplicità di cui è portatore. Lo stile estremo della serie marca una certa irriverenza nei confronti di un tema come quello della Shoah, in genere maneggiato con molta attenzione ma qui spinto nelle pulsioni del cinema di genere senza troppe remore, tanto che la comunità ebraica americana, così come l’Auschwitz Memorial, non hanno mancato di stigmatizzare la cosa. Resta però lo stupore, e magari anche l’ammirazione, per la veemenza con cui una serie mainstream come questa sbatte in faccia all’America le sue colpe, le ambiguità, le connivenze e soprattutto il nazismo strisciante nel ventre del suo tanto celebrato melting pot. E questo, in epoca trumpiana, non è merito da trascurare.