Un anno a Cape Cod: La casa estrema di Henry Beston

Capolavoro della letteratura naturalistica americana La casa estrema di Henry Beston (Ponte alle Grazie, pag.192, euro 16) è cronaca, osservazione, riflessione di un uomo che ha scelto di vivere in un paesaggio da abitare ma non da addomesticare. Nel 1925 lo scrittore e naturalista Henry Beston si fa costruire una piccola casa sulle dune di Cape Cod. La battezza «Fo’ castle», castello di prua, perché il cottage ha ben dieci finestre affacciate sull’oceano aperto e, ovunque Beston si volti, proprio come su una nave, l’oceano gli restituisce i suoi colori, la sua quiete, ma anche la sua furia. Incantato dalla misteriosa bellezza del paesaggio e dalla natura che circonda la sua casa, nel 1926 l’autore decide di trascorrere un anno intero in questo luogo.

 

 

La casa estrema ci presenta un tempo, un luogo e un uomo. Il tempo e il luogo, Cape Cod a metà degli anni ’20: un avamposto selvaggio e spazzato dal vento della terra. Dominato dall’oceano e dal tempo. Qui, in una piccola casa situata da solo su una duna sopra il mare, un uomo è venuto in solitudine per guardare, ascoltare e testimoniare.                                                                     John Hay 

 

Henry Beston morì nel 1968. Il cottage continuò ad essere concesso in affitto ogni estate agli iscritti della Audubon Society, fino al 1978. Nel mese di febbraio di quell’anno una violenta tempesta invernale, paragonabile a quella che viene descritta nel capitolo Pieno inverno, strappò La casa estrema dalle fondamenta e lo trascinò in mare. La sola cosa che fu recuperata fu la targa d’ottone che lo designava luogo di interesse letterario e, curiosamente, il piccolo capanno esterno.                                                                                                                                Robert Finch       

 

 

Per getile concessione della casa editrice Ponte alle Grazie pubblichiamo un estratto dal capitolo Notte sulla grande spiaggia di La casa estrema.

 

La nostra fantastica civiltà ha perso il contatto con molti aspetti della natura e soprattutto con la notte. I popoli primitivi seduti attorno al fuoco all’imboccatura della caverna non hanno paura della notte: temono soltanto le energie e le creature che dalla notte traggono potere. Noi che viviamo nell’era delle macchine e ci siamo liberati dei nemici notturni, ci siamo disamorati della notte. Con luce e illuminazione abbiamo limitato la sacralità e la bellezza della notte alle foreste e al mare: neanche i paeselli più piccoli o le strade di campagna ne godono più. I popoli moderni hanno paura della notte, forse? La vasta serenità, il mistero degli spazi infiniti, l’austerità delle stelle li spaventano forse?
A casa propria in una civiltà ossessionata dal potere, che spiega il mondo in termini di energia, di notte temono per la loro ottusa acquiescenza e la struttura delle loro credenze? Che sia così o meno, la civiltà di oggi è abitata da persone che non hanno la minima idea di che cosa sia la notte e la sua poesia, gente che la notte non l’ha neppure mai vista. Vivere in questo modo, tuttavia, conoscere soltanto la notte artificiale, è assurdo e nefasto quanto conoscere soltanto il giorno artificiale.
La notte su questa enorme spiaggia è meravigliosa. È davvero l’altra metà della portentosa ruota del giorno; non ci sono luci insensate a pugnalarla o disturbarla, è bellezza, soddisfazione, riposo. Nubi sottili galleggiano nei cieli, isole di oscurità in uno splendore di spazio e di stelle: la Via Lattea è un ponte fra terra e mare; la spiaggia diventa unità di forma, le lagune estive, i pendii e gli altipiani si mescolano; contro il cielo dell’Ovest e l’arco calante del sole si alzano le dune ondulate, imponenti e silenziose. Le mie notti sono al massimo dell’impenetrabilità quando dal mare arriva una nebbia fitta sotto una cappa nera di nuvole. Sono rare e me le aspetto quando la nebbia si raccoglie sul mare a inizio estate. La notte di mercoledì scorso è stata la più buia in assoluto. Fra le dieci di sera e le due del mattino si sono incagliate nelle secche tre imbarcazioni: una fisherman, una goletta a quattro alberi e un peschereccio attrezzato con sfogliara. Le prime due sono state soccorse e hanno ripreso il mare, il peschereccio è ancora a terra. Quella sera sono sceso sulla spiaggia poco dopo le dieci.

Il buio era fittissimo, carico di umidità e di pioggia, talmente nero che non si scorgeva neanche la luce del faro di Nauset e l’oceano era mero fragore. Quando sono arrivato sulla riva, non vedevo più le dune. In quell’immensità di pioggia e notte ero così isolato che sarei potuto essere nello spazio interplanetario. Il mare era inquieto e reboante e quando ho squarciato l’oscurità con il fascio di luce della mia torcia elettrica, ho visto che le onde stavano portando sulla spiaggia verdi matasse di alghe, lucide e fredde nello splendore innaturale e immobile. In lontananza passava gemendo una nave lungo le secche. La nebbia era compatta nella sua umidità e alla luce della mia torcia pareva una strana seta, eterea e liquida. Effin Chalke, il nuovo guardacoste, è passato da me nel suo pattugliamento verso nord e mi ha detto dello schooner a Cahoon. Ai miei occhi era buio pesto, ma credo che la completa oscurità sia rarissima, se non addirittura inesistente in natura. Ciò che più vi si avvicina, probabilmente, è una foresta avvolta nella notte e nelle nuvole. Lì sulla spiaggia era buio come la notte e sulla superficie terrestre c’era ancora luce. Con le onde che si frangevano ai miei piedi, vedevo l’orlo bianco della spuma che saliva verso la spiaggia, si spandeva e ritornava al mare.

Gli uomini della stazione di Nauset mi hanno detto che in notti come quella per orientarsi seguono quel vago movimento di bianco e si fidano dell’abitudine e del proprio sesto senso per capire quando sono in prossimità della postazione intermedia. Sotto le stelle gli animali scendono sulla spiaggia. A nord, di là dalle dune, i topi muschiati abbandonano la falesia e scendono a curiosare fra le alghe e i legni portati dal mare, lasciando tracce intricate e circuiti di impronte che il giorno cancella; gli animali più piccoli, come topi, rospi color sabbia e talpe, si tengono sulla spiaggia superiore e imprimono orme sotto la scarpata di sabbia. In autunno le puzzole, per riempire la dispensa, vanno a cercare cibo sulla spiaggia al calar del buio. Sono animali puliti e arricciano il naso di fronte ai cattivi odori. Una sera, andando incontro al primo guardacoste di pattuglia verso sud dalla stazione di Nauset, ne ho quasi calpestato una. Ho sentito uno zampettare veloce e me la sono trovata in mezzo ai piedi; benché chiaramente allarmata, è rimasta composta e ha mantenuto una certa pacatezza. I cervi si vedono di frequente, specie a nord del faro. D’estate trovo le loro impronte sulle dune.