La Mostra in forma: the Shape of Venezia 74

Il palmarès di Venezia 74 è cosa ormai nota e glorifica la capacità della Mostra di Alberto Barbera di ampliare i confini del Cinema al di là dei percorsi autoriali solitamente previsti. Il Leone d’Oro a Guillermo Del Toro per la  fiaba d’amore anfibio Tha Shape of Water, al di là del piacere che può dare a chi apprezza da sempre il cinema di questo amabile visionario dell’umanesimo gotico, marca anche la differenza che può fare un festival cinematografico rispetto alle verità assunte dai catecumeni dell’autorialità precostituita e alle kermesse che, come Cannes, rischiano di adagiarsi sulla programmazione a manovella, quella che macina e premia autori che spesso funzionano a gettone, per automatismi poetici. Il premio a Guillermo Del Toro, del resto, appare tanto entusiasmante e innovativo quanto lo fu lo scorso anno il Leone d’Oro attribuito al Lav Diaz di The Woman Who Left, dal momento che traccia un’ipotenusa capace di unire i  versanti complementari di un Cinema disposto secondo poetiche distintamente personali, egualmente passionali e coerentemente storiche. Poetiche che conducono il Cinema nel suo presente più attuale, invece che in quello abituale. C’è da rimarcarlo questo, perché troppo facilmente si potrebbe guardare al Leone d’Oro consegnato a The Shape of Water da una Giuria di cui faceva parte, del resto, anche un altro maverick hollywoodiano come il post-landisiano Edgar Wright, come a una scelta di compromesso tra la Mostra e un certo sedicente e seducente mercato, ovvero come all’ennesimo viatico che porta dal Lido veneziano dritto sino all’Academy Award, o al massimo (per dirla coi quotidiani del giorno dopo) come a un docile cedimento al piacere di una favola d’amore differente in fuga dal buio dei tempi in cui si vive.

Jusqu’à La Garde

Lo stesso livido lasciato sulla pelle dei cinefili dall’esclusione dal palmarès di uno dei film più potenti del concorso, quel First Reformed di Paul Schrader che pure sarebbe stato un Leone d’Argento per la Regia perfetto, risulta alla fin fine la conferma di una certa tendenza a spingere la Mostra in territori magari più fragili, ma di sicuro  meno battuti. Schrader rimarcava magistralmente l’attualità della sua eterna poetica basata sulla libertà della colpa, ma Venezia 74 ha segnalato (in duplice eccesso, considerato anche il Premio Opera Prima Luigi De Laurentiis) la regia di un esordiente francese già strutturato come un veterano: Xavier Legrand, che con Jusqu’à La Garde firma un dramma di coppia con separazione sospinto verso una tensione sempre più fisica, non ha le stimmate dell’Autore, ma potrebbe ritrovarsele in corso d’opera, maturando una personalità magari più spiccata. Piace anche trovare premiato solo per la sceneggiatura il veterocoeniano Three Billboards Outise Ebbing, Missouri, film notevole, non c’è che dire, ma giustappunto in funzione dello  script di Martin McDonagh (mica per niente anche rinomato drammaturgo), altro nome che Venezia piazza sulla scena internazionale con autorevolezza. Il Gran Premio della Giuria a Foxtrot incoraggia invece l’opera seconda dell’israeliano Samuel Maoz, fermo dai tempi in cui proprio Venezia lo propose sulla scena internazionale con il Leone d’Oro a Lebanon, mentre il Premio Speciale della Giuria al quasi western aborigeno di Warwick Thornton Sweet Country a dire il vero non pare destinato a lasciare troppa traccia. Le Coppe Volpi vanno come sempre per la loro strada, con la prevedibile affermazione della Charlotte Rampling di Hannah e la scriteriata sottolineatura del libanese Kame El Basha atta a tirare doverosamente dentro  The Insult di Ziad Doueiri.

Hannah

A fronte di questo esito, resta d’altro canto la notizia di una 74 Mostra del Cinema in grande forma, che è piaciuta trasversalmente e nettamente, e che si è imposta nel suo insieme, insistendo su una selezione che ha quasi sempre soddisfatto le attese e ha saputo mostrare soprattutto scelte di carattere. Barbera, insomma, sta quietamente dando forma al suo progetto di festival, accomodandolo in una situazione logistica che quest’anno è finalmente apparsa spaziosa, vivibile, piacevole (l’esatto opposto della sempre più angusta e sovraffollata Croisette), spingendola sulla virtualità del cinema come territorio di una deriva artistica in divenire, lavorando su un College capace di lasciare traccia, ritrovando un dialogo col pubblico che sembrava smarrito e che invece quest’anno è tornato a popolare il festival, attraversando senza troppe difficoltà anche i pur discreti e funzionali sistemi di sicurezza imposti dai tempi. Il controcampo offerto dal concorso Orizzonti risulta forse ancora un po’ casuale nelle frastagliate scelte di selezione, o quanto meno troppo diseguale, ma resta uno spazio in cui si vedono opere importanti, che puntellano la Mostra al pari dell’operato delle due sezioni indipendenti, le Giornate degli Autori e soprattutto la Settimana Internazionale della Critica (che quest’anno ha proposto una raffica di opere prime importanti e di indubbio rilievo). E poi questa è stata una Mostra da cui si parte con alcune folgorazioni provenienti da giovani autrici: da Les Bienheureux di Sofia Djama e Marvin di Anne Fontaine (in Orizzonti) a Sarah joue un loup-garou di Katharina Wyss (SIC) a M di Sara Forestier (Giornate degli Autori). Che il futuro sia donna?