A Modena A cosa serve l’utopia, mostra fra distopia e sogno di cambiamento

Luis Poirot, Exilio, Paris, 1987

Fino al 22 luglio presso la Galleria Civica di Modena c’è la mostra A cosa serve l’utopia, a cura di Chiara Dall’Olio e Daniele De Luigi, prodotta da Fondazione Modena Arti Visive nell’ambito del festival Fotografia Europea dedicato quest’anno al tema “RIVOLUZIONI. Ribellioni, cambiamenti, utopie.” Il titolo della mostra è tratto dal paragrafo “Finestra sull’utopia” del volume Parole in cammino di Eduardo Galeano (1940-2015). Lo scrittore uruguaiano descrive l’utopia come un orizzonte mai raggiungibile, che si allontana da noi di tanti passi quanti ne facciamo. Chiedendosi “a cosa serve l’utopia”, si risponde “a camminare”.  Coniato nel Cinquecento da Thomas More, il termine utopia è passato progressivamente nel corso dei secoli a indicare non solo un luogo astratto o irraggiungibile, ma anche un progetto di società possibile, in cui perseguire obiettivi concreti come l’uguaglianza sociale, i diritti universali, la pace mondiale. Le rivoluzioni del Novecento ne hanno delineato una duplice natura: da una parte sogno concreto, speranza nel cambiamento, fiducia nel futuro; dall’altra capovolgimento in distopia, un modello di società che reprime le libertà dell’uomo e lascia un’amara disillusione verso gli ideali infranti o traditi. In apertura Paula Haro Poniatowska, Convencion Nacional Democratica de Aguascalientes, Chiapas, Mexico, 1994.

 

Mladen Stilinovic¦ü, Sale of Dictatorship, 1977-2000

La mostra esplora la tensione tra queste due dimensioni attraverso una selezione di fotografie e video di artisti e fotografi italiani e internazionali, provenienti dai patrimoni collezionistici gestiti da Fondazione Modena Arti Visive, nello specifico la Raccolta della Fotografia avviata nel 1991 con la donazione della raccolta dell’artista e fotografo modenese Franco Fontana. Le opere delle collezioni modenesi sono poste in dialogo con una serie di immagini scelte dagli archivi della Magnum. Le fotografie Magnum, stampate su grande formato, ritraggono attraverso l’occhio di celebri fotoreporter come Abbas, Bruno Barbey, Ian Berry e Alex Majoli, momenti culminanti di rivolta divenuti iconici nell’immaginario collettivo come il Sessantotto a Parigi e Tokyo, la caduta del Muro di Berlino nel 1989, oppure il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti negli anni Sessanta fino alla Primavera araba. Il percorso espositivo inizia con uno scatto emblematico del 1968 in cui studenti parigini, fotografati da Bruno Barbey, si passano di mano in mano dei sampietrini. Segue Omaggio ad Artaud di Franco Vaccari che celebra il potere dell’invenzione linguistica di far immaginare ciò che non esiste, e prosegue con alcune immagini evocative dell’utopia comunista: dopo la gigantografia di Lenin fotografata da Mario De Biasi a Leningrado (1972), appare l’immagine creata dal rumeno Josif Király di alcuni ragazzi che nel 2006 passano il tempo libero seduti su una statua abbattuta del leader sovietico. Piazza San Venceslao a Praga nel 1968, fotografata da Ian Berry e gremita di giovani che si ribellavano all’occupazione russa, fa da contraltare alle opere che mostrano la sorte beffarda che subiscono talvolta le icone delle rivoluzioni: è il caso della serie Animal Farm (2007) della ceca Swetlana Heger, che mostra sculture di animali presenti nei parchi di Berlino le quali, secondo le informazioni raccolte dall’artista, sarebbero state realizzate con il bronzo della monumentale statua di Stalin rimossa nel 1961 dalla Karl-Marx-Allee; oppure di Sale of Dictatorship (1997-2000) dello slavo Mladen Stilnović, in cui i ritratti di Tito passano dalle vetrine dei negozi alle bancarelle dei mercatini di memorabilia.

Mario De Biasi, Mosca, 1980

 

Il percorso prosegue con alcune immagini riferite al Medioriente e ai suoi conflitti mai sanati: da quello iraniano con la rivoluzione khomeinista, testimoniata da uno scatto di Abbas nel 1978 e la rilettura fatta di quegli eventi in Rock, Paper, Scissors (2009) da Jinoos Taghizadehche marca l’enorme distanza che separa speranze di cambiamento e realtà — al conflitto israelo-palestinese, evocato dalle torri militari di avvistamento presenti in Cisgiordania che Taysir Batniji ha chiesto di documentare clandestinamente a un fotografo palestinese (2008), fino alle lettere che un detenuto libanese, imprigionato durante l’occupazione israeliana nel Libano meridionale, ha inviato dal carcere ai suoi cari e che Akram Zaatari ha fotografato nel lavoro Books of letters from family and friends (2007). Completa questo gruppo di opere uno scatto di Charles Steele-Perkins che racconta proprio quei disordini del 1982.

Iosif Király, Reconstruction, Mogoşoaia, Lenin, Groza, 2a, 2006

La difesa della memoria storica è presente nella ricerca condotta in Cile da Patrick Zachmann sui luoghi teatro dei crimini del regime di Pinochet. Una serie di ritratti (tra gli altri di Francesco Jodice, Luis Poirot, Melina Mulas) incarnano altrettante e diverse forme di resistenza attive e passive, che si oppongono tanto a brutali repressioni quanto a forme di segregazione o controllo sociale in Tibet come in Giappone o in Tunisia. Due fotografie del 1963 di Leonard Freed rappresentano il sogno di uguaglianza del Movimento per i diritti civili in America. Il breve video dell’artista di origini peruviane Ishmael Randall Weeks rende onore, con una poetica metafora, a chi lotta per non cadere. Le opere di Filippo Minelli e del collettivo Zelle Asphaltkultur, pur frutto di azioni artistiche assai differenti (l’innesco di fumogeni colorati in contesti naturali idilliaci il primo, la realizzazione illegale di grafiche di esplosioni su vagoni ferroviari il secondo), sfruttano l’immaginario comune legato ai disordini e alla violenza per riflettere sul senso che esso assume nel mondo contemporaneo. La mostra si chiude con una delle utopie oggi più diffuse, quella pacifista, che proietta sull’intera comunità umana il sogno dell’assenza di conflitto e di una fratellanza universale. Il video di Yael Bartana A Declaration (2006), in cui un uomo a bordo di un’imbarcazione approda su uno scoglio dove campeggia una bandiera israeliana e la sostituisce con un albero di ulivo, sembra indicarci ciò che è necessario per perseguire questo ideale: visionarietà, coraggio, simboli condivisi, poesia.

Daido Moriyama, Oct. 21, 1969