Que viva Tina!

9DAFDE8988D5163ABF4013A31254FE59Una esposizione ricca e impreziosita da alcuni documenti rari, allestita fino all’8 marzo 2015 presso il Centro Internazionale di Fotografia Scavi Scaligeri, nel cortile del Tribunale di Verona: 110 fotografie provenienti dal prezioso archivio di Cinemazero che offrono un saggio della produzione di Tina Modotti, ma anche un ritratto della donna che va oltre il suo essere una virtuosa dello scatto. E dunque ne ripercorrono, sulla scia di quell’entusiasmante lavoro di ricerca che Pino Cacucci affrontò all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, la complessa parabola esistenziale e artistica.

Proprio a Cacucci, uno dei più appartati  e sottovalutati scrittori italiani degli ultimi trent’anni  – rileggetevi, se avete dubbi, In ogni caso nessun rimorso, storia dell’anarchico Jules Bonnot; ma anche Puerto Escondido, provando magari a dimenticare la trasposizione cinematografica di Salvatores, che purtroppo ne elude la rabbia e il legame profondo con la realtà per lasciar posto a un nirvana atemporale e gratificante.

La storia di Tina (nata Assunta Adelaide Luigia Modotti a Udine, nel 1896), così piena di luoghi, di cose, di persone,  è per forza di quelle che non si dimenticano. Il padre era un muratore che strappava ingaggi tra il Friuli e l’Austria, mentre la madre si arrangiava come cucitrice. In casa il cibo non bastava mai, la legna per scaldarsi nemmeno. Il sogno americano, con meta San Francisco, è prima per il padre e per la sorella maggiore; a diciassette anni  arriva il turno di Tina che, già temprata dal lavoro in filanda, non fatica a trovare posto nell’industria tessile californiana. È tempo di lotte sindacali e di furiose emancipazioni culturali: Tina, in fabbrica, acquista coscienza di classe e di sé, e guadagna l’accesso ai circoli culturali che fervono nella più creativa tra le grandi città del West. Comincia, sulle ali di una curiosità per il mondo che non conoscerà soste, un lungo percorso di crescita personale e di distacco dal microcosmo familiare (nel frattempo tutti i Modotti si sono stabiliti a san Francisco), che passa attraverso un matrimonio con il pittore canadese Roubaix De L’Abrie Richey detto “Robo”, una breve carriera cinematografica a Hollywood (di cui rimane l’unica testimonianza in pochi frammenti di The Tiger’s Coat, diretto nel 1920 da Roy Clements), il lavoro come modella per il celebre fotografo Edward Weston.

Le fonti sostengono che Tina non fosse digiuna di fotografia, praticata forse già a Udine nello studio dello zio, e poi certamente in America col padre, che aveva aperto una propria bottega. E’ altrettanto fuor di dubbio che fu con Weston che avvenne il passaggio dietro la macchina: da musa e modella, poi anche amante e allieva.

Caricando banane a Veracruz, Messico, 1928 Tina Modotti
Caricando banane a Veracruz, Messico, 1928
Tina Modotti

Per lei Weston si trasferì in Messico, dove Tina  – che ci era capitata una prima volta per seguire il marito e si era invaghita del paesaggio e della gente – aveva stabilito la residenza. Fu, il loro, un rapporto di reciproca soddisfazione, soprattutto sul piano professionale: Weston trovò la sua strada nel mondo della fotografia, con una adesione definitiva al realismo (in contrasto con modernismo, pittorialismo ed espressionismo, movimenti derivati dall’Europa, che si dividevano in quel tempo la scena americana); Tina imparò la tecnica, che mise al servizio di una volontà spiccatamente documentarista. I due divennero anche i fotografi ufficiali della pittura “muralista”, che aveva quali esponenti di punta Josè Orozco e Diego Rivera, ancora oggi tra i maggiori artisti messicani della storia.

Il successo di Modotti e Weston fu enorme nel Messico degli anni Venti. Ma Tina non riusciva a goderselo fino in fondo. Quando, all’inaugurazione di una mostra dedicata a entrambi –era il 1927, a Città del Messico – scopre che il sottotitolo è ”L’imperatore della fotografia e la bellissima Tina Modotti: una combinazione irresistibile”, si infuria non per la subordinazione al compagno, che ritiene tutto sommato naturale nell’ambito di un rapporto che è pur sempre di maestro ed allieva, ma piuttosto per l’insistenza sull’elemento estetico, che di fatto le nega una autonomia espressiva che comunque ritiene, pur nell’insoddisfazione frequente per i risultati raggiunti, di meritare.

Marcia di campesinos, Messico, 1928 Tina Modotti Archivio Fotografico Cinemazero Images, Fondo Tina Modotti
Marcia di campesinos, Messico, 1928
Tina Modotti
Archivio Fotografico Cinemazero Images, Fondo Tina Modotti

D’altronde, Tina non riuscì mai a liberarsi del tutto da un senso di inadeguatezza che la prendeva quando guardava alla sua produzione. Era insicura: nelle lettere scritte al suo mentore, quando le capitava di fare reportage in solitario per le strade polverose del Messico, chiedeva consigli, conferme circa questo o quel soggetto, la luce, l’inquadratura. Anche se poi è sulle scelte tematiche che si concentra la riflessione teorica sulla fotografia da parte della Modotti. È da lì che nasce la convinzione di non poter essere altro che un’artigiana dello scatto: “Sempre, quando le parole arte e artistico vengono applicate al mio lavoro fotografico, io mi sento in disaccordo…Mi considero una fotografa, niente più. Se le mie foto si differenziano da ciò che viene fatto di solito in questo campo, è precisamente perché io cerco di produrre non arte, ma oneste fotografie, senza distorsioni o manipolazioni”.

Le motivazioni che la spingevano a sottovalutarsi erano dunque legate al senso stesso del suo lavoro: ciò che la rendeva diversa in un’epoca che esaltava piuttosto l’artificio e la sperimentazione, ne testimonia invece chiaramente la modernità, che, per la sua fotografia, è soprattutto un ritorno alle origini, alla semplicità dell’immagine come testimonianza e rappresentazione della realtà. Compito che Tina assolve benissimo. Almeno fino al 1930, quando all’apice della carriera e della fama, venne espulsa dal Messico per motivi politici. Non fotograferà più, a parte pochi scatti berlinesi, che nulla aggiungono al suo percorso e che di fatto la convinsero che le rinnovate tecniche fotografiche non facevano più per lei e per la sua concezione “pura” della professione. Da allora comincia un’altra storia, inquietante e con tanti elementi di opacità. E’ l’impegno politico – che aveva condotto in parallelo alla carriera di fotografa nel periodo messicano – a prendere il sopravvento su ogni altro interesse. Ma il suo attivismo si inserisce in un contesto spurio, in cui la fedeltà ideologica è spesso acritica, e la porterà nella Russia sovietica, nella Germania nazista, in Spagna a combattere nelle Brigate internazionali, a New York, e poi di nuovo in Messico, sempre con il compagno Vittorio Vidali, una spia in quota a Stalin, che rimarrà con lei fino alla fine in uno strano rapporto di amore-odio (e che, dopo la guerra, avrà un futuro in Italia addirittura come parlamentare!).

Proprio al paese che sentiva come sua patria adottiva, a cui torna ormai disillusa e stanca, sono legati due episodi che la vedono suo malgrado implicata e tuttora circondati dal mistero: il probabile coinvolgimento nell’assassinio di Trotzskij, in cui certamente ebbe parte l’impenetrabile Vidali; la sua stessa morte, ufficialmente per infarto, nel 1942, dentro un taxi di Città del Messico. Mentre nuovi sospetti, alimentati da Diego Rivera, si addensavano sullo sgusciante Vittorio Vidali, il grande Pablo Neruda, sdegnato, li volle allontanare confezionando in memoria dell’amica una poesia, alcuni versi della quale divennero il suo epitaffio:

“ Tina Modotti hermana,

no duermes, no duermes…

Tal vez, tu corazòn oye crecer la rosa de ayer, la ultima rosa…

Descansa dulcemente, hermana…

Puro es tu dulce nombre,

pura es tu fragil vida…

de sombra, fuego, nieve, silencio…”.

Tina Modotti a Hollywood, Los Angeles (USA), 1920 - 1921 Anonimo
Tina Modotti a Hollywood, Los Angeles (USA), 1920 – 1921
Anonimo

Nell’esposizione veronese si alternano fotografie di Tina, la maggior parte, con prevalenza di quelle legate ai viaggi nell’entroterra dell’America Centrale;  e fotografie su Tina, in particolare di Edward Weston, che ne sottolineano la sensualità, esaltandone i tratti, così lontani dai canoni estetici americani dell’epoca, ma anche di un esotismo decisamente diverso rispetto a quello delle donne messicane.  I curatori della mostra sono stati davvero bravi a restituirci la complessità della figura di Tina Modotti, evidenziando il suo lato di testimone (quello che più sentiva suo) senza però dimenticarne la dimensione di protagonista attiva del periodo a cavallo tra le due guerre. E se i documenti degli anni successivi al 1930 si fanno radi, non è a causa di una lacuna nel lavoro di ricostruzione, ma perché gradualmente svanisce la Tina storica per lasciare il posto alla sua leggenda.