A Spoleto. Socìetas Raffaello Sanzio: nuova forma per la radicalità del Giulio Cesare

Fotografia di Luca Del Pia
Fotografia di Luca Del Pia

Nel 1997 la Socìetas Raffaello Sanzio realizza uno spettacolo destinato a segnare un punto di svolta nel teatro italiano e a imporre la compagnia a livello internazionale. Si tratta di Giulio Cesare. Tratto da Shakespeare e dagli storici latini, in due atti, che quell’anno si aggiudica il premio Ubu per il miglior spettacolo e che viene poi portato in tutto il mondo. Estremo e radicale, mette in scena attori obesi, muti e senza volto accanto ad attrici anoressiche. A distanza di quasi vent’anni Romeo Castellucci che – nel 1981 insieme a Claudia Castellucci e Chiara Guidi ha fondato la Socìetas Raffaello Sanzio – dà una nuova forma a quello storico spettacolo e in Giulio Cesare. Pezzi staccati. Intervento drammatico su Shakespeare riflette sull’origine della retorica e sul mestiere dell’attore, entrambi visti dal di dentro (in senso letterale: una telecamera endoscopica porta in primo piano le corde vocali origine della voce, mentre un attore laringectomizzato parla attraverso la sua ferita). Uno spettacolo potente – in scena al Teatro Crt, nel Salone d’Onore del Palazzo dell’Arte, fino al 20 marzo – che restituisce con forza ed empatia la tragedia shakespeariana e umana. Una vera e propria esperienza, come sempre succede con la Socìetas Raffaello Sanzio. In un incontro pubblico Romeo Castellucci ha approfondito la questione.

 

 

Pezzi staccati

Non parlerei di attualizzazione, per me è una parola problematica. Qualcuno ha detto che per essere contemporanei bisogna portarsi fuori dal tempo, sono d’accordo. Questo lavoro è stato riconcepito nel contesto di una piccola rassegna realizzata a Bologna nel 2014 dal titolo “… e la volpe disse al corvo. Corso di linguistica generale”, concentrata sulla parola e il potere della retorica. In Pezzi staccati presento per l’appunto tre momenti isolati che contengono una riflessione in filigrana sull’essere attore. Si tratta di tre monologhi: il primo è quello del senatore Marullo che rampogna il ciabattino in festa per il ritorno di Cesare. Il secondo è un monologo muto, non ci sono parole, ed è quello di Giulio Cesare, una vittima del potere – lo subisce – e si presenta fin da subito come un capro da macello. Il terzo monologo è quello vincente di Marco Antonio, uno dei pezzi più belli di tutti i tempi, vero e proprio agone retorico tra lui e Bruto. Quest’ultimo usa una retorica di tipo classico, mentre Marco Antonio vince perché usa una retorica cosiddetta asiana. Parafrasando Stanivlaskij è una via interiore; un testo profondamente religioso (c’è una sorta di radianza che l’attore ha in quanto attore) e profondamente umano. All’inizio si ha una riduzione brutale della funzione dell’attore ma, a mano a mano, si recupera la sua umanità.

 

Alle origini

Il Giulio Cesare del ’97 è molto complesso e pesante. Umanamente è fortissimo, di tutte le tournée che ho fatto sicuramente il ricordo più forte è legato proprio a questo spettacolo. Oggi è irrealizzabile. Per me non è stato doloroso tagliare, lo è stato di più rifare esattamente uguale l’Orestea a Parigi. Alla fine ne è venuto fuori uno spettacolo che ho fatto fatica a riconoscere, è stato strano. A posteriori dico che non lo farò mai più. Il primo atto ora mi sembra un’apologia della violenza, all’epoca non lo era, semmai era un grido di protesta. Diciamo che può essere interessante come esperimento di antropologia culturale.

 

Marco Antonio

Fotografia di Guido Mencari | www.gmencari.com
Fotografia di Guido Mencari | www.gmencari.com

Dalmazio Masini che interpreta Marco Antonio è un attore straordinario che parla con una tecnica esofagea, comprimendo lo stomaco. La sua è una parola fondata su una ferita (e Marco Antonio parla in continuazione di ferite). La bocca di Dalmazio è muta, ma lui riesce davvero a parlare da una ferita ed è questo che vince.

 

La drammaturgia

Per me quello che conta è la drammaturgia, c’è un grande lavoro di concentrazione su questo aspetto. Ci sono diverse strategie su come toccare lo spettatore. Sono partito da questa immensa manovra che Shakespeare ci ha proposto a partire dal ciabattino. A me è venuta in mente la bocca. La drammaturgia è importante anche quando lavoro a partire da nulla, da nessun testo. Etimologicamente drammaturgia deriva da dromena, il gesto, e indicava la pratica antica per rendere vive le statue cioè rendere vivente qualcosa che, per definizione, rimane sulla carta, è un lavoro di plastica sul tempo. E in effetti l’unica cosa che riusciamo a fare è modificare il tempo attraverso il corpo degli attori, le luci…

 

Il teatro non è un rito

Il teatro è teatro proprio perché non è più un rito, il cielo è vuoto, non ci sono più gli dei. La tragedia si fonda su una mancanza (molto diverso dal teatro orientale, più vicino al concetto di festa, in cui gli dei sono presenti). Il teatro non è un rituale anzi è una polemica contro il rito, ma è vero che è un luogo religioso. Citando Gorgia, direi che il teatro è un modo per combattere il verbo essere. È la sostituzione della realtà, ma si sospende la realtà solo se la si può ricreare, chi inganna sa più di chi è ingannato. Il teatro non è per dare giudizi (i personaggi più belli sono le carogne che non hanno nulla da insegnare), almeno io non lo vedo così, non mi appartiene. Nei miei spettacoli non c’è mai un tentativo di critica o di commento dell’esistente. È un lavoro molto formale, nel senso di concentrato sulla forma, non estetizzante, ma estetico sì.

giulio

La teologia

Dal mio punto di vista non si può prescindere da questa dimensione quando si parla di teatro. Anche un palco nudo è una struttura implicitamente teologica, anche una commedia, anche Molière, qualcuno deve ricevere dei colpi, altrimenti il teatro non esiste. È una struttura molto primitiva, palese in Giulio Cesare. Ancora di più in Sul concetto di volto nel figlio di Dio dove il tema è centrale, ma è sempre presente, anche se non lo si vuole.

 

L’attore

L’attore è una sineddoche, un giambo che riconduce a un altro corpo che è il mio. Dopotutto il teatro è l’arte del contatto, se non c’è lo spettatore è arte decorativa, intrattenimento. Che poi il piacere fa parte di questo gioco di forma senza dubbio, i greci si divertivano così, quindi è importante provare piacere anche davanti alle cose più terribili. Questo lo dovrebbe indagare un antropologo delle religioni. Io mi limito a raccogliere delle cose cadute, non invento nulla.

 

Spoleto   Festival dei due mondi   25-26 giugno e 1-3 luglio

www.festivaldispoleto.com

www.raffaellosanzio.org