Bruno Bigoni: Rimbaud rivive in Chi mi ha incontrato non mi ha visto

bigoni_chi-mi-incastratoUna fotografia inedita potrebbe mettere in discussione tutto quello che fino a ora si sa di Arthur Rimbaud. Lo ritrarrebbe in un letto d’ospedale, senza la gamba destra, in mano un foglio su cui si leggono versi mai apparsi in nessuna delle opere conosciute del poeta. Parte da qui il viaggio di Bruno Bigoni sulle orma del grande poeta francese al centro di Chi mi ha incontrato non mi ha visto. Più che un documentario, la documentazione di quello che sarebbe stato. Riproponiamo l’intervista apparsa sul catalogo di Filmmaker, dove il film è stato presentato (dopo essere stato al Torino Film Festival).

 

A quando risale la tua passione per Arthur Rimbaud?

Comincia molto tempo fa con la scoperta dei suoi versi: avevo vent’anni e leggevo tanta poesia, ma Rimbaud è stato per me un’illuminazione. È tra i primi a sottrarsi all’obbligo del verso e ad aprire con la prosa poetica scenari sconfinati. E poi, già da allora, era il cinema il centro dei miei interessi: la ricerca di una corrispondenza tra un immaginario poetico e uno visivo mi sembrava cruciale. Poi, una quindicina di anni fa, ho cominciato a coltivare il sogno, non tanto di creare una storia che contenesse tutto il suo mondo infinito, quanto di concepire piccoli frammenti, schegge di quel mondo. E ho girato 7 Illuminations pour Arthur Rimbaud (2006). Pensavo che la mia storia con Rimbaud fosse finita lì, finché ho letto il libro di Renato Minore, critico letterario del Messaggero: in un capitolo raccontava di aver ricevuto l’offerta di acquistare una foto inedita che rappresentava il poeta nelle vesti di schiavista. Ho iniziato allora a lavorare a una sceneggiatura in cui immaginavo che un professore universitario – ma in alcune versioni era un regista – ricevesse un’offerta simile.

 

Fino a quando l’idea di far vivere quell’avventura immaginata da un attore è stata archiviata a favore di una scelta più personale.

Ho capito che il protagonista dell’avventura potevo essere solo io. Il racconto di un’ossessione non poteva essere affidato a un attore, dovevo assumerne la responsabilità.

 

Il rapporto tra ciò che è vero e ciò che è falso in quello che è rappresentato sullo schermo è stato al centro delle tue riflessioni?

Mi sono detto che un film come questo avrei potuto girarlo solo se fosse stato vero, se si fosse nutrito della verità della storia. O meglio, della verità del sentimento che sta dietro la storia.

 

Ed è quello che alcuni dei tuoi interlocutori riferiscono: la verità più importante è la verità emotiva. Se vuoi credere che sia vero lo sarà.

Sì, è così. E a quel punto chi guardava il film si sarebbe interrogato: ciò che ho visto è accaduto davvero o no?

 

Da qui la scelta stilistica di utilizzare strumenti, come la camera nascosta, tipici del documentario investigativo?

Fin dalla scrittura abbiamo ipotizzato il doppio punto di vista. Una camera che filma “oggettivamente” quello che sta accadendo e un’altra che fornisce una sorta di soggettiva. Fondamentale è stata la ricerca dell’equilibrio tra i due punti di vista, cui abbiamo lavorato anche in post-produzione attraverso l’uso di effetti. Per assurdo più finzione hai più realtà restituisci. La diversità di grana tra la camera principale e la Go-pro è molto visibile: fa parte del gioco e abbiamo cercato di portare questo contrasto fino in fondo.

 

bigoni_chi-mi-ha-incastrato_1

 

Nell’esigenza di restituire realtà rientra anche la scelta degli interlocutori cui ti rivolgi: come li hai scelti?

Renato Minore è stato una scelta obbligata. Ha letto la sceneggiatura e l’ha trovata nelle sue corde. Più complicato è stato coinvolgere Minnie Ferrara, produttrice di tutti i miei film: Minnie è molto ritrosa, ma ancora una volta era questione di credibilità. Non avrei potuto che rivolgermi a lei per un progetto come questo.

 

Le riservi il ruolo della disfattista. Il produttore che non condivide l’entusiasmo dell’autore.

È il ruolo della realista più che della disfattista. L’atteggiamento che lei adotta nel film è lo stesso che ha da sempre quando vado a proporle un film: mettermi di fronte alle difficoltà che quel progetto comporta. Sta a me convincerla della mia motivazione e della fattibilità. È per questo che credo sia una grande produttrice, insieme a Mario Castagna, l’altro produttore del film. Persone che guardano al cinema prima di tutto come produzione di senso.

 

L’onere della prova, insomma, è dell’autore?

Certo. E a me sta bene. A questo proposito non secondaria è la presenza di Gianni Canova, che è un cinefilo spinto oltre che un accademico. La cinefilia gli ha permesso di stare al gioco, ma il suo ruolo è quello del preside di facoltà – la facoltà dove io insegno – e la sua risposta è conforme a quel ruolo: «Che prove hai? L’università non è il luogo per ciò che non è scientificamente provato».

 

Mentre tu ti trovi in una terra di nessuno, tra «vero e falso, edito e inedito

L’accademia esige razionalità, un approccio emotivo lì non ha diritto di cittadinanza.

 

Poi c’è Steve della Casa.

Un amico, un critico serio, ma anche un avventuriero. Che mi dice: «Buttati! Perché se l’accademia guardasse con occhi sgombri da pregiudizi a questo oggetto, capirebbe che ha il potere di cambiare la storia scritta fino a questo momento».

 

bigoni_chi-mi-ha-incastrato_3

 

L’autore dunque ha il potere di riscrivere la storia?

Rimbaud oggi ha lo statuto del mito, è intoccabile anche se è definitivamente uscito di scena. La sua casa a Charleville è vuota, il museo Rimbaud non espone che una forchetta e una valigia. Il resto è il prodotto della devozione, sono gli altri che su di lui hanno poi “ri-creato”: da Patti Smith a Picasso, da Mapplethorpe a Cocteau… A me interessava riportare in vita Rimbaud come materia incandescente, perché lo considero centrale nella cultura europea del ‘900. Il mio non è solo un omaggio, è un tentativo di recuperare la memoria, bleffando, giocando sporco, ma sperando di far innamorare qualcun altro.

 

Nel tentativo di far innamorare rientra anche la decisione di coinvolgere i tuoi figli? Rocco, il minore, viene con te a Charleville. Ha accettato di buon grado?

Mio figlio ha l’età di Rimbaud quando scriveva poesia. Non so se voglia dire qualcosa, ma a me sembrava un collegamento, un utile e necessario rimando. Quello che accade nel film riprende fedelmente la realtà: totale indifferenza. Almeno in apparenza… Però ci sono cose che mio figlio non mi rivela: credo che qualcosa abbia portato a casa da quel viaggio, ancora non so cos’è, ma il tempo lavora, in silenzio…

 

I giovani e la poesia oggi: un’impresa sedurli.

La poesia è la lingua del mondo, quella che unisce tutte le altre, ma in pochi la leggono. È come se fosse una lingua morta, che non comunica, che non riesce più a farsi capire… Però è lì nell’ombra. Ho girato, qualche anno fa un documentario su come i poeti e i comici immaginano il momento della loro morte, si intitolava L’attimo assoluto (2009). Mi sembrava che solo la poesia potesse parlare di quel momento. Oggi, con questo film il discorso non è poi molto diverso. Riportare in vita Rimbaud significa parlare di noi e del nostro desiderio di esprimerci. Ciò che io spero arrivi a chi guarda il film è che la poesia è centrale nella vita, può spingere a trovare soluzioni o a riscoprire i nostri sentimenti perduti o verità nascoste. Per Rimbaud la verità era fondamentale. Doveva essere assoluta, per lui che si considerava un vate scellerato, e la soluzione, la vera rivoluzione si trovava solo lì, nella poesia. Poi, certo, la disillusione è arrivata presto, a vent’anni. E da quel momento in poi, al di là delle infinite parole scritte su di lui, nessuno ha idea di quello che il poeta abbia fatto o pensato.