Che fine ha fatto Jim Carrey?

Negli ultimi anni Jim Carrey ha diradato gli impegni cinematografici. Un corto nel 2010 (ha interpretato Ronald Reagan in Presidential Reunion, diretto da Ron Howard, in cui si immagina che Obama incontri gli ex presidenti USA), nel 2011 una puntata di The Office e una di Drunk History, oltre al film per bambini I pinguini di Mr. Popper; nel 2012 un episodio di 30 Rock, la serie creata da Tina Fey, nel 2013 un ruolo secondario nel non memorabile Burt Wonderstone (da noi distribuito due anni dopo), un divertissement contro le armi dal titolo Cold Dead Hand with Jim Carrey in cui veste i panni di Charleston Heston, Sam Elliott e di Lonesome Earl, un cowboy immaginario e Kick Ass 2 in cui è il colonnello Stelle e Strisce; nel 2014 un corto dal titolo Kids e Scemo & + Scemo 2 fino ad arrivare nel 2016 in cui compare in un piccolo ruolo in The Bad Batch di Ana Lily Amirpour, presentato in concorso a Venezia, ed è protagonista del trascurabile True Crimes di Alexandros Avranas, visto alla Festa del cinema di Roma dello scorso anno (tuttora senza distribuzione).


Uno dei motivi di quella che sembra una pausa di riflessione – non sono previsti attualmente nuovi film – è che si è dato alla pittura. Nel video I Needed Color, diretto e prodotto da David Bushell, un ispirato Carrey si lascia infatti andare a una pseudo confessione. «Cosa fai quando la vita ti sceglie?» è la domanda che l’attore si pone in apertura del mini-documentario (6 minuti), mentre è intento a rovesciare colore su tele gigantesche nel suo studio di New York. Tutto è iniziato sei anni fa come cura per «guarire un cuore infranto» (risale al 2010 la fine della sua relazione con l’attrice Jenny McCarthy). «Avevo bisogno di colore», come recita il titolo, per combattere la depressione. Ricorda che da bambino disegnava, «ma non ho mai dipinto molto. Quando venivo mandato in camera mia non era una punizione, per me era il paradiso».


C’è spazio anche per la scultura e per quadri che raffigurano Gesù Cristo, ma non necessariamente per una qualche ricerca spirituale perché, ci tiene a mettere le cose in chiaro Carrey, «non so se Gesù sia reale, non se se abbia vissuto, non so cosa significhi, ma dipingere Gesù è davvero il mio desiderio per trasmettere la coscienza di Cristo».
Prima di tutto quindi una terapia personale perché, come dice ancora Carrey, «non so cosa mi insegni la pittura, so solo che mi rende libero. Libero dal futuro, libero dal passato, libero dal rimpianto e dalla preoccupazione».