Claire Simon: la dura selezione di Le concours

claire-simon_1La Fémis (École Nationale Supérieure des Métiers de l’Image et du Son) è una delle più importanti scuole di cinema del mondo. Creata a Parigi nel 1944 (fino al 1986 si chiamava IDHEC), è pubblica e e vi si accede dopo la maturità. La sua attività principale è la formazione ai mestieri del cinema: regista, direttore della fotografia, produttore, sceneggiatore, montatore, tecnico del suono, distributore… Di qui sono passati, solo per citare qualche nome, Louis Malle, André Téchiné, Alain Resnais, Claire Denis, François Ozon, Céline Sciamma. La regista Claire Simon è stata per anni insegnante di regia alla Fémis, poi si è dimessa («il conflitto di interessi in Francia non è possibile») perché voleva girare un documentario sul concorso per entrare in questa scuola. Ogni anno migliaia di aspiranti artisti passano per una dura selezione che la dice lunga sulle dinamiche della nostra società. Il film mostra proprio i due lati della medaglia (i giovani candidati e i giudici) e, quindi, il confronto generazionale. Le concours, che esce in Francia il prossimo febbraio, è stato presentato in anteprima a Filmmaker e Claire Simon era presente alla proiezione.

 

La macchina del concorso

Pur avendo insegnato per molto tempo alla Fémis non conoscevo tutto il concorso, ma solo alcune parti. Il mio progetto era filmare una macchina, un sistema, non le persone, né i candidati o i professionisti che li intervistano. Quello che è certo, e lo avevo sentito dire a Scuola, è che si tratta di un mondo molto chiuso.

 

La scuola

Una delle prime riprese che ho fatto riguarda la giornata dell’Open Day. Si percepisce immediatamente che tutti i ragazzi che vengono con i loro genitori vogliono entrare nella Scuola. Il livello di tensione è altissimo ed è tangibile: sono giovani che vogliono entrare nel mondo elittario, frequentare la miglior scuola di cinema, e hanno un desiderio, un appetito direi, che è fortissimo. Naturalmente succede la stessa cosa con la Harvard Kennedy School o con la scuola di cinema di Pechino, è un sistema mondiale che funziona in questo modo. Questo aspetto mi ha fin da subito stupita e affascinata e in seguito, in tutte le tappe, sentivo che la posta in gioco era così alta che, in ogni parola, ogni candidato metteva in gioco la propria vita e, dall’altra parte, i giurati ne erano consapevoli.

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Il dialogo

La mia impressione più forte è stata che il livello di dialogo era estremamente intenso e all’inizio questo mi spaventava, ma poi ho capito che il soggetto del film era proprio questo dialogo in cui i giovani mettono in gioco la loro vita e gli adulti cercano di capire se valga la pena salvare queste vite. Penso che questa sia un’esperienza umana che tutti possano capire. Il vantaggio della scuola di cinema, a differenza di una scuola di matematica o di economia, è che parla una lingua che tutti capiscono perché tutti sono stati almeno una volta al cinema. Per me è stato subito chiaro che bisognava avere un’idea di cos’era il giudizio e di come i giudici discutessero subito dopo l’uscita del candidato perché raccontava i due lati. Il mio lavoro è stato quello di cercare di filmare quello che succede in una stanza tra le persone, da una parte e dall’altra, ma non invento nulla, è una vecchia regola che viene da Godard.

 

Una risposta politica

In Francia e in Europa penso che l’idea di uguaglianza sia molto forte, a differenza degli Stati Uniti dove è più forte l’idea di libertà. Noi viviamo in un mondo in cui è fondamentale dire che tutti sono uguali. In Francia l’idea della meritocrazia arriva da Napoleone: tutti sono uguali, ma solo i migliori hanno diritto a far parte dell’élite. Quindi la questione è sapere come si considera che qualcuno è migliore di altri.

 

I giudici

Se avessi fatto vedere solo i candidati, gli spettatori sarebbero stati i giudici, ma per me non è questo il cinema. Non si può assolutamente giudicare in un film. C’è un film di Miloš Forman, Gli amori di una bionda, storia di alcune ragazze che partecipano a concorsi di canto e noi non sappiamo mai se sono brave o meno. Siamo con loro nei dialoghi di questo concorso, nell’esperienza, ma non c’è un giudizio. Succede quasi sempre così nei film in cui ci sono concorsi: il pubblico non è mai nella posizione del giudice, perché il cinema non racconta questo. Penso che il cinema documentario, come il romanzo, deve collocarsi di lato rispetto alla sfida che sarebbe di dire «È bello, non è bello?» perché non serve a nulla. Si tratta, in realtà, di fare un quadro di quello che la nostra società ha deciso di fare che è del tutto diverso dal dare un giudizio.

 

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La proiezione

Nel momento in cui filmo i professionisti che giudicano, soprattutto i più vecchi, si vede qual è il loro impegno personale, come proiettano sui candidati le loro aspirazioni e come scelgono il proprio futuro, che non vivranno se non attraverso l’incarnazione della giovinezza. È difficile per loro immaginare qualcosa di diverso da quello che sono, che sognano di essere, e dunque è difficile dire che qualcosa di inatteso possa venir fuori, mentre è quello che vogliono. Vorrebbero scegliere un outsider, ma scelgono sempre qualcuno che è simile a loro. Tutti facciamo così, anch’io. Sarò molto presuntuosa, ma così come Marcel Proust ha scelto di raccontare cos’è il mondo in cui viveva, la mondanità, penso sia molto importante riuscire a filmare, anche in un documentario, coloro che dirigono la società.

 

La selezione

Nel mio film ci sono due tipi di domande: «Questo candidato farà del bene alla scuola?». Si capisce che la scuola è una creazione della società, una creazione a cui tutti partecipano. L’altra domanda è: «Questo luogo che dovrebbe raccontare storie che attraversano la Francia, riesce a raccontare tutte le storie?». Perché effettivamente, forse, le storie succedono in luoghi dove le persone che sono i vettori di queste storie non entrano alla Fémis. Purtroppo succede così nel mondo intero: funzioniamo con un sistema di selezione che assomiglia a quello della Fémis.