Cristina Donà: il mio Rock Bazar tra Bowie e Jagger

«È più che forte il sospetto che Cristina Donà sia la migliore cantautrice che l’Italia abbia finora espresso»: è così che Leonardo Colombati, nel mastodontico La canzone italiana 1861-2011, sigilla l’esperienza ventennale di Cristina Donà. Forse ha ragione. Oggi che il cantautorato italiano vive un momento di nuova grazia, la sua influenza appare sempre più grande. Basta ascoltare artisti come Brunori Sas o Dimartino per rendersi conto dell’affinità stilistica (e sentimentale) al mondo Donà: una sintesi tra intimismo, racconto del femminile e insieme sguardo sul contemporaneo che non rinuncia alla poesia, ma anzi la eleva nel suo rapporto al paesaggio musicale. E che per questo sopravvive alle mode del momento: Goccia o Settembre o Miracoli sono canzoni che sembrano non avere tempo. Ma Cristina Donà (sette album, due Targhe Tenco) da qualche anno ha anche avviato un percorso artistico eclettico, guidato da una libera re-interpretazione delle canzoni di altri artisti. Ha dato voce alle “donne di Fabrizio De André”, insieme a jazzisti del calibro di Rita Marcotulli e Javier Girotto, ha omaggiato il suo “nume tutelare” Robert Wyatt nello spettacolo Sea Songs e soprattutto è l’alter ego di Massimo Cotto nel suo Rock Bazar, insolito ibrido tra racconto radiofonico, live set da club rock e spettacolo teatrale, in cui canta – tra gli altri – Bowie, Lennon, Jagger. L’abbiamo intervistata in vista delle repliche milanesi dello spettacolo, il 24 e 25 febbraio al Teatro Menotti.

 

Come sei stata coinvolta da Massimo Cotto in Rock Bazar?

Conosco Massimo da anni, ci siamo incrociati molte volte, sui palchi e fuori. Aveva da poco terminato l’esperienza di Chelsea Hotel, uno spettacolo in cui raccontava le storie del mitico hotel a Manhattan con Mauro Ermanno Giovanardi a interpretare i brani degli artisti che lo popolarono. Gli era venuto in mente di sviluppare un altro spettacolo mettendo al centro gli aneddoti della storia del rock, stavolta facendo tesoro della sua trasmissione su Virgin Radio, Rock Bazar, e del libro che vi era collegato. Sapendo della mia passione per le cover e, in generale, per una certa epoca della storia del rock, diciamo tra i Sessanta e i Settanta, mi ha contattato. Ci ho pensato un po’ su: io pondero bene le cose, non sono mai immediata nelle risposte. Ma ho voluto farlo, e lo ringrazio per avermelo proposto.

 

Come avete scelto la scaletta?

Lo spettacolo è stato costruito in parte in base agli aneddoti che avrebbe voluto leggere Massimo, in parte intorno alle canzoni nelle quali avrei potuto mettere qualcosa di mio. Principalmente volevamo brani riconoscibili. Ci siamo confrontati piuttosto assiduamente sul repertorio, non è stato facile, a volte ci siamo anche scontrati sui pezzi, ma alla fine è stato divertente. All’inizio con noi c’era Alessandro “Asso” Stefana, chitarrista storico di Vinicio Capossela, che poi ci ha “abbandonato” per andare in tournée con PJ Harvey. Poi è stato sostituito, perfettamente, da Marco Carusino, che è al momento in tour con noi. Massimo ha poi avuto l’idea di inserire i brani in una sorta di struttura legata ai dieci comandamenti. Mi piace molto l’idea del contrasto tra la vita personale degli artisti rock e questa simbologia, anche perché va un po’ a giocare con l’artista rock come “idolo”.

C’è un tuo intervento “extra-musicale”?

Diciamo che, in minima parte, faccio anche qualche battuta! Sinceramente, è una cosa che mi diverte, vedo che la gente ride ai miei interventi, e questo mi fa piacere, anche perché magari la mia musica solitamente non è proprio associata al divertimento…

 

Rock Bazar è un ibrido. È metà teatro, metà live musicale, ma nasce da un libro che è – soprattutto – show radiofonico. Che valore ha per te la radio?

Amo moltissimo la radio. La ascolto prevalentemente quando sono in macchina, come tante persone. Mi rendo conto del coinvolgimento che alcune trasmissioni o speaker sono in grado di creare quando sbaglio strada! È successo diverse volte. Musica a parte, ascolto molte le trasmissioni di approfondimento, in questo periodo storico le vivo come risorsa preziosa per l’informazione.

 

E il teatro?

Il teatro per me è una storia particolare. Ho frequentato l’Accademia di Brera e mi sono diplomata in scenografia, avevo l’intenzione di unire la mia passione per la musica a quella per le arti visive, e all’epoca ero interessata soprattutto ai videoclip. Per un periodo ho lavorato per la Scala, mi sono occupata di elaborazione costumi e ho fatto comunque dei video musicali. Poi mi sono trasferita in montagna e un po’ a causa dei tour, un po’ della vita privata, ho frequentato il teatro in modo meno costante. Ma resto affascinata dal linguaggio teatrale, principalmente perché è un’espressione che si svolge in quel momento preciso, in concreto.

 

È un discorso che vale anche per i concerti?

Certo. Per la stessa ragione i concerti resistono. Come i dischi, hanno conosciuto una flessione, ma inferiore. I concerti, come il teatro, restano un momento unico di condivisione collettiva. Più passa il tempo, più questa dimensione è qualcosa di cui abbiamo sempre più bisogno, che dà respiro alle persone.

 

Hai fatto anche uno spettacolo teatrale con Isabella Ragonese, Italia Numbers, che ruotava attorno al tema della violenza sulle donne.

È andata così. A Isabella era stato commissionato uno spettacolo sul tema della violenza sulle donne, e le era stata data carta bianca. Noi ci siamo conosciute tempo prima, ed è maturata una stima reciproca. Quando mi ha proposto di fare questo spettacolo, lei aveva già un’idea dei testi, molto belli, di Paolo Cognetti (da un suo libro) e Stefano Massini, l’attuale direttore artistico del Piccolo Teatro di Milano. In quel caso alcuni testi sono stati scelti partendo dalle canzoni e alcune mie canzoni partendo da ciò che voleva leggere. Uno dei testi di Massini, peraltro, era stato scritto per la scena già integrando un ritornello cantato. Si chiama “Postumi” ed è un racconto del “dopo”, cioè della vita di una donna dopo che ha subito una violenza, anche in dettagli più quotidiani. Entrambe volevamo fare qualcosa che non ruotasse solo attorno alla violenza in sé, ma che ci permettesse di esplorare anche altri aspetti, più legati al femminile in senso generale. Ad esempio, c’è anche la storia di una donna che decide di portare a termine una gravidanza da sola, ma non perché il padre non ci sia, bensì perché è una donna libera di farlo. Anche questa era una sfumatura che tenevamo a raccontare.

 

L’iconografia della rockstar, almeno di quelle che raccontate in Rock Bazar, è maschile.

In realtà no. Pur avendo abbracciato il tema della femminilità nelle mie canzoni, il mio essere in musica resta “assessuato”. Per me cantare David Bowie o Mick Jagger non conta in quanto brano al maschile o al femminile. Addirittura Ring of Fire di Johnny Cash è stata scritta da sua moglie. In generale, percepisco il messaggio di questi artisti oltre il sesso. Io non mi sento né uomo né donna, mi sento voce. Poi ci possono essere casi in cui l’originalità della mia versione scaturisce anche dal mio essere donna, oppure circostanze in cui invece deliberatamente sottolineo questo aspetto, anche cantando gli uomini.

 

Come nel lavoro su Fabrizio De André, immagino.

Nel caso dello spettacolo su Fabrizio De André, la scelta della traccia legata alle donne che ha cantato, mi ha dato la possibilità di dare loro una “voce”, e qui sì che in qualche modo ho esaltato la componente femminile nell’interpretazione. De André è stato grande anche per questo: nelle sue canzoni ci sono aspetti che non è sempre facile immaginare stando dal punto di vista maschile, peraltro sempre in assenza di giudizio, che è una delle sue cose più belle. Quando ho incontrato Dori Ghezzi per questo lavoro le dissi che avrei voluto interpretare Princesa, ma avevo qualche dubbio. Lei mi disse: «Devi assolutamente cantarla! Finalmente Princesa potrà essere donna». E così è entrata, di prepotenza, nello spettacolo.

 

Mentre sarai in teatro, compi vent’anni di carriera.

È vero. Tregua è del 1997. E sono in buona compagnia, sono molti gli artisti italiani che hanno esordito quell’anno. Mi viene in mente Niccolò Fabi, ad esempio.

La fine del secolo scorso è stato un bel momento per i cantautori in Italia.

Perché c’erano le possibilità e i mezzi per sviluppare le proprie idee. Io sono stata fortunata perché ho incontrato le persone giuste, Manuel Agnelli che ha prodotto i due primi album, il team della Mescal che era una fucina preziosa per formare la propria identità artistica, un’etichetta che dava molto spazio agli artisti. Furono lungimiranti: era un’etichetta, ma anche un management, edizioni, organizzatori di live. Insieme al Consorzio Produttori Indipendenti, due esperienze rare.

 

Hai un’influenza importante su molti cantautori, anche della nuova generazione. Eppure sembra che tu abbia proprio scelto di stare “a distanza”, anche fisicamente, vivendo in montagna. In Giapponese (L’arte di arrivare a fine mese), canti: “Elefanti i suv della tangenziale / Come fare per raggiungerti senza farmi esasperare?”. Sei esasperata dalla città?

Spesso le mie amiche storiche di Milano mi prendono in giro, mi dicono che per farmi stare fuori fino a tardi ci vuole un concerto! La verità è che io somiglio molto al luogo dove sono venuta ad abitare, che è a una quarantina di chilometri da Bergamo, in montagna. L’ho scelto per ragioni affettive, ma mi trovo bene, io sono così, come questo luogo.

 

Per questo preferisci stare in teatro con tutti questi progetti paralleli, invece che seguire percorsi più “classici” della notorietà?

Da qualche anno mi sto dedicando parecchio all’interpretazioni di canzoni altrui. È un po’ una mia passione e un modo per riconnettermi con i miei esordi, il tempo in cui cantavo le cover. Credo sia naturale, dopo il percorso che ho fatto, e forse anche per ragioni anagrafiche, voler godere di questa libertà. A proposito di Giapponese, io sono molto contenta di andare a fare la spesa al supermercato qui, senza che mi fermino. Ogni tanto succede, e mi fa piacere. Ma in generale il mio privato, il fatto di poter essere libera di agire come cittadina in totale tranquillità, è qualcosa che non riuscirei a scambiare con qualche possibilità di guadagno, per quanto magari è tutto relativo ora. L’unico rammarico è quando devi fare alcune scelte produttive “al risparmio”, perché magari vorresti portarti un musicista in più in tour, o avere mezzi differenti per fare un video. Ma va bene così. Questo “rimanere fuori” più che scelta artistica è soprattutto una scelta personale. Credo di essere stata fortunata perché ho trovato un mio ruolo in un habitat che mi ha permesso di crescere.

 

Anche se, paradossalmente, sei finita in un talent. Fedez, a X Factor, ha fatto cantare a una sua band in gara Universo, definendola una delle canzoni più belle mai scritte.

Lo so! E mi ha molto felice. Al di là della visibilità che ha dato al brano, senza essere lì. Però in generale, quando i riflettori mi sono troppo puntati contro, quando c’è una forma quasi morbosa del personaggio, lì mi sento a disagio. Col tempo ho imparato a riconoscere le situazioni in cui posso dare il massimo e quelle meno adatte al mio carattere, pur riconoscendo che magari professionalmente mi avrebbero dato enormi possibilità. A volte mi chiedono di Sanremo o dei talent, io non ho veramente nulla contro. Anche se, come per le radio, occorrerebbe più varietà di proposta, incentivare veramente gli artisti a poter esprimere il loro mondo.

 

A questo proposito, che rapporto hai con i nuovi cantautori della scena “indipendente”?

Ho un legame forte con Dario Brunori, che conosco da molti anni. Mi ha mandato il suo disco in anteprima (A casa tutto bene, ndr) e penso sia bellissimo, trovo che lui abbia una penna unica. Mi fa anche molto piacere sapere – ma perché ogni tanto me lo dicono – di essere stata per qualcuno un riferimento, non solo nello stile che ho nello scrivere canzoni ma magari anche nell’atteggiamento generale. Sono contenta ci sia questo nuovo movimento formato da band che stanno riportando il pubblico italiano in Italia. Fino a qualche tempo fa i sold out si vedevano solo con gli eventi stranieri, ora con i gruppi italiani… Forse c’è finalmente voglia da parte delle nuove generazioni di riscoprire le canzoni, forse c’è dell’identificazione. Ciascuno nel suo genere, sono riusciti a dare vita a una tradizione che in Italia esiste ed è importante. Che è proprio quella di scrivere canzoni.

 

Le Foto di Rock Bazar sono di Daniela Crevena

 

Rock Bazar

Ceva (CN)                  Teatro Marenco         17 febbraio

Nichelino (TO)        Teatro Superga          18 febbraio

Milano                        Teatro Menotti           24 e 25 febbraio

Conselice (RA)        Teatro Comunale       26 febbraio

Bergamo                     Auditorium di Piazza Libertà           21 aprile

 

www.produzionifuorivia.it

www.teatromenotti.org