Emanuela Martini: a Torino inseguiamo le tante anime del cinema

x240-kuSSono anni che il festival di Torino è  un appuntamento irrinunciabile per chi ama il cinema. Lo è per attitudine, per scelte, per le occasioni di incontro che crea, per il clima che si respira ad ogni proiezione. Si vede gran cinema e ci si diverte. A me ricorda l’atmosfera di Toronto, dove la competenza si accompagna alla serenità. La principale sezione competitiva del festival, riservata ad autori alla prima, seconda o terza opera, il cuore del festival è incentrato sul cinema “giovane”. La selezione dei film in concorso scandaglia le migliori tendenze del cinema indipendente internazionale. Nel corso degli anni sono stati premiati autori, ai loro inizi, come: Tsai Ming-liang, David Gordon Green, Chen Kaige, Lisandro Alonso, Pietro Marcello, Debra Granik, Alessandro Piva, Pablo Larraín. Per fare il punto sull’edizione 2105 abbiamo sentito Emanuela Martini.

 

Per confezionare questa edizione del Torino Film Festival avete visto 4mila film. Siete nella posizione per raccontarci come sta il cinema…

Dopo Cannes qualche preoccupazione mi è venuta. Si è trattato di un festival in tono minore che non ci ha regalato molti spunti di lavoro. La stessa cosa è accaduta al Sundance. Poi dai territori che battiamo noi sono venuti fuori film molto interessanti. Forse perché ci muoviamo in ambiti dove i grandi festival non guardano. Di inusuale quest’anno c’è la presenza di ben 4 film italiani in concorso: Colpa di comunismo di Elisabetta Sgarbi, Mia madre fa l’attrice di Mario Balsamo , I racconti dell’orso di Samuele Sestieri e Olmo Amato, Lo scambio di Salvo Cuccia.

 

Come si va evolvendo il rapporto con il cinema mainstream?

Il festival di Torino è sempre stato orientato verso altri sguardi. Detto ciò non sono contraria al cinema mainstream. Poi bisogna intendersi: se ci riferiamo ai super film delle grandi case il nostro festival non è chiaramente interessato. Se invece parliamo di cinema di genere e di quello che una volta si chiamava “medio”,  inesistente da noi e molto consistenti in altri paesi come la Francia, il nostro interresse è molto elevato. Il film danese che abbiamo in concorso,  The idealist di Christina Rosendahl, è un thriller stile Pakula. Grazie al cielo la produzione orientale “da festival” è drasticamente diminuita, contemporaneamente c’è stata una vera fioritura del cinema di genere. Per il concorso 15 film è il numero massimo su cui una giuria può lavorare, per questo abbiamo dovuto fare rinunce e dirottare delle opere in Festa mobile, penso a film come il bel noir francese La résistance de l’air di Fred Grivois.

 

The idealist di Christina Rosendahl
The idealist di Christina Rosendahl

Mentre gli altri festival aboliscono le retrospettive voi ne fate un punto di forza…

Per quanto sia tutto scaricabile e facilmente reperibile, i festival hanno una funzione perché i giovani non conoscono nulla e se non vengono indirizzati non sanno cosa guardare. Se vai a Venezia o Cannes il tempo per vedere le retrospettive non c’è. Questo è stato determinante per la loro progressiva abolizione, tutti si concentrano sulla vetrina della produzione contemporanea, sulla stretta attualità. Invece noi le coltiviamo, le nostre retrospettive sono molto affollate perché il pubblico ci segue e si fida di ciò che proponiamo. E poi c’è l’emozione della scoperta…

 

La scelta del Gran Premio Torino a un autore appartato come Terence Davies va in questa direzione… 

Ci piace da sempre,  il suo nome era già venuto fuori in altre circostanze ma quest’anno l’occasione era perfetta perché è tornato dietro la macchina da presa per Sunset Song, la storia  di una famiglia patriarcale scozzese interpretata da Agyness Deyn e Peter Mullan. Per me è uno dei più grandi autori europei degli ultimi trent’anni. Il nostro pubblico mediamente sa chi è e sono molto felice di fare vedere o rivedere Distant Voices, Still Lives.

Sunset Song di Terence Davies
Sunset Song di Terence Davies

 

Come si crea e coltiva un pubblico pagante numeroso e fedele come il vostro?

Non lo so. Lavoro d’istinto ma ho la costante sensazione che il pubblico ci segua. Il nostro è un programma molto differenziato ma per niente casuale. Come ho detto in conferenza stampa abbiamo 159 film e tutti sono stati scelti, amati e voluti da qualcuno. Ovviamente non c’è l’unanimità di giudizio fra i selezionatori, ma per quanto mi riesce possibile, anche se tendo ad essere un po’ autoritaria, lascio liberi i gusti di tutti. Credo che questo il pubblico lo percepisca. Parliamo di una platea formata per la maggioranza di appassionati e cinefili che comprende che dietro ogni film c’è una motivazione. Penso sia fondamentale, per un festival che ha 12 sale e un pubblico pagante, non cercare di intercettare i gusti della gente ma avere l’ambizione di inseguire le varie anime del cinema.

 

Se tu dovessi scegliere un solo titolo di quest’anno?quarto_potere

A parte Quarto potere che per me è il miglior film della storia del cinema, in Questioni di vita e di morte, la sezione curata da Julien Temple come guest director, c’è A Matter of Life and Death di Michael Powell e Emeric Pressburger, per me uno dei film della vita, imprescindibile.