Gang, la formidabile banda di drughi dei fratelli Severini

Quando nel 1984 esce Tribe’s Union, l’autoprodotto esordio dei Gang (8 canzoni in un lp che andava suonato a 45 giri) subito si comprende che c’è una speranza anche per la nostra desolante scena rock. Serve uno scatto, uno smarcamento per fare l’ulteriore e decisivo passo. Il passaggio alla lingua italiana rappresenta una svolta e un salto di qualità innegabile. Nel loro suono, mentre in troppi  (discografici e addetti ai lavori) vogliono un cambiamento per renderlo più commerciale, si fa strada l’umanesimo contadino, la Resistenza, la critica (pasoliniana) allo sviluppo e all’omologazione, l’amore per la terra, la necessità del ritorno a casa, l’apoteosi della sconfitta, la fierezza dell’antagonismo, l’alienazione e lo sfruttamento della fabbrica. Su questo materiale incandescente veglia ed esercita il suo magistero rock la Gibson di Sandro Severini. L’equilibrio è perfetto. Alla fine degli anni Novanta i Gang sono una realtà consolidata che ha un unico problema: l’industria culturale non gli perdona la loro coerenza e militanza, la schiena dritta. Hanno una casa discografica, la WEA, che nel 2000 gli fa causa. Poi c’è chi gli chiede 500 milioni di lire di danni per Duecento giorni a Palermo. I Gang hanno iniziato a farsi benvolere nel 1991 quando al Concertone del Primo Maggio, in diretta tv hanno detto la loro:”Siamo venuti perché invitati dai sindacati, ma siamo venuti per dare un consiglio ai sindacati e a tutti i lavoratori italiani. Il consiglio dei Gang è sciopero generale!” Emarginata, la band reagisce. Lo fa sparandosi un centinaio di concerti all’anno, divengono i drughi del rock. Suonando ovunque, con uno zoccolo durissimo di fan che non li abbandonano (personalmente ho sempre acquistato gli album dei Gang a prescindere: mi sembrava di doverglielo. Faceva bene al cuore saperli in giro in questi anni bui a battersi a chitarre spianate).  Con i loro live si riflette, si condanna, si ricorda, si rimpiange, si distrugge, si decompone, si ricostruisce, si dubita, si ammicca, ci si confronta, in un gioco di luci e di ombre, in uno stato di partecipazione e assorbimento difficilmente reperibili sulla  scena italiana.

 

Questa assoluta libertà gli ha permesso di rischiare, di sperimentare. Per questo Marino Severini appare come uno dei pochi ad avere la voce e  la capacità per confrontarsi e rielaborare con un gusto rock il folklore italiano. Folk come Grande Altro. Per Béla Bartók “l’elaborazione di un istinto che agisce inconsapevolmente negli individui non influenzati dalla cultura cittadina”. Esagerando un po’: istinto sta a razionalità come folklore sta a metropoli, “evidenza del primario” a “socializzazione della nevrosi”. La metropoli non sopprime il folklore: ne fa il proprio paradiso antropologico. I Gang l’hanno compreso subito e meglio di tutti. Nel loro percorso il folk entra in un processo entro il quale i suoni della realtà e la realtà dei suoni si mettono in comunicazione allo stesso livello: si pensi a Nel tempo e oltre, cantando (2004), lavoro che vede la collaborazione di La Macina e si innerva sulla preziosa ricerca sui canti popolari marchigiani di Gastone Pietrucci; oppure la strepitosa versione di La pianura dei sette fratelli delle Mondine di Novi, e ancora Stavo in bottega che lavoravo,  la filastrocca Cioetta Cioetta…Ma cosa abita la loro musica? Oltre alla solita impressionante consapevolezza ritroviamo una provincia intatta e tuttavia non imbalsamata nella sua saldezza morale; una commedia umana che attraversa con struggente stupore vite con “i pugni in tasca” di quotidianità faticosa e precaria ai margini della metropoli; i disastrosi risvolti sociali dell’espansione capitalistica; l’alienazione dell’operaio di provenienza contadina (vista con gli occhi di personaggi che sono fratelli di sangue dell’Albino Saluggia di Memoriale di Paolo Volponi). Nei loro testi prende corpo una realtà mutante di cui la fabbrica, nei suoi meccanismi concreti e descrivibili, è solo un punto di partenza. La classe operaia va scomparendo, rimangono ricordi, progetti, diagnosi, riflessioni (sentimentali e non) che si fondono in un monologo che disegna la mappa del malessere contemporaneo, dove lasciarsi vivere vuol dire solo abbandonarsi alla meschinità dell’esistenza: “Qui ce n’é per tutti/ leggi e carceri speciali/ comunità riformatori/ manicomi criminali./ Qui son tutti uguali/ liberi di consumare/ e se hai qualche problema/ ti puoi sempre ammazzare./ (da Socialdemocrazia). I Gang scavano nei sotterranei della viltà e nelle sconfinate possibilità dell’atto mancato senza, però, alcuna retorica della sconfitta. In fondo sceneggiano storie d’amore, confessano brividi profondi, narrano di rischiose (metaforiche) corse sul pelo dell’acqua. Sotto diverse maschere ci raccontano del difficile rapporto con i ritmi fatali della vita e ci preparano balsami sempre diversi per guarire. Impossibile rinunciarci.

 

 

L’ Associazione culturale Blue Velvet (www.duels.it) propone per il 12 ottobre alle 21 e 30 alla Latteria Molloy via Marziale Ducos 2/B di Brescia (ingresso euro 12) il concerto dei Gang, la storica band di Marino e Sandro Severini. Il live si articolerà in due set: uno acustico e uno elettrico full band. I Gang ripercorreranno la loro leggendaria e coerente carriera, cominciata a metà degli anni Ottanta e dispiegatasi nei territori del punk, del rock, del folk. Il concerto verrà ripreso e farà parte del film Sotto un cielo di ombre rosse – Gang, la Banda dei fratelli Severini diretto da Massimo Rota e Davide Bassanesi. La lavorazione del film è iniziata il 29 luglio scorso.