Giorgio Cordini: i miei anni con Fabrizio De André

“Era l’11 gennaio del 1999 e seppi da un telegiornale che Fabrizio De André era morto. Non lo sentivo dall’ottobre precedente e fui profondamente toccato dalla sua scomparsa, che pure era tristemente attesa. Per molto tempo non ho voluto sentir parlare di tributi e di omaggi: quando mi chiamavano per incontri e concerti, declinavo gentilmente. Ma c’era in me un vuoto difficile da colmare, e solo più tardi ho capito che avrei potuto riempirlo suonando di nuovo la sua musica: sarebbe stato un modo per continuare a dimostragli l’affetto che avevo nutrito nei suoi confronti. Più in generale, con il tempo ho maturato l’idea che soprattutto noi, suoi musicisti e stretti collaboratori, abbiamo il dovere morale di tenerne vivo il ricordo, i messaggi, il pensiero. Personalmente, l’ho fatto con le modalità che più mi erano più familiari: passato il momento emotivamente più difficile, ho cominciato a proporre il tuo suo repertorio, con progetti come I Mille Anni Ancora (nato intorno a un tavolo con Ellade Bandini e Dori Ghezzi), o coinvolgendo nella Piccola Orchestra Apocrifa amici come Michele Gazich e Stefano Zeni, e poi con il trio Arcari/Bandini/Cordini, o da solo”. Giorgio Cordini (veneziano per nascita, poi bresciano per quasi cinquant’anni, prima di spostarsi nel “buen retiro” di Schilpario, nell’orobica Val di Scalve), che fu chitarrista di Faber dal 1991 al 1998, ci racconta così il percorso di elaborazione di un lutto. Parole che si ritrovano anche nel suo libro I miei otto anni con Fabrizio De André (Ed. Fingerpicking.net, pp. 138, euro 14).  Può apparire curioso che una narrazione vitale e a tratti commossa, non solo si apra, ma anche si chiuda, con la morte: essa attiene tuttavia alla cornice, mentre il cuore pulsante sono gli aneddoti e le piccole rivelazioni, legati a un intenso rapporto professionale e di amicizia. Pagine che mettono a fuoco il primo incontro (ideale) con il musicista, nel 1964, e quello reale, nel 1990; quindi i molti live vissuti al suo fianco, le situazioni impreviste (quando De André fa notare a Giorgio un errore di esecuzione che egli era convinto di non aver fatto) e quelle sorprendenti (Fabrizio che chiede al sodale di insegnargli a suonare il bouzuki). Pagine traboccanti di vita vissuta, insomma, che Cordini fissa per la prima volta su carta.

 

Giorgio, i ricordi sono fluiti con facilità?

Non sono abituato a scrivere, ma è stato abbastanza facile, e alla fine l’esperienza si è rivelata gratificante. In principio, avevo in mente cinque, sei episodi che ritenevo meritevoli di essere raccontati. Mentre scrivevo, me ne sovvenivano altri, e l’esercizio di memoria, procedendo per accumulo, mi ha confermato che stavo facendo una cosa buona.

 

De André è tutto nelle sue canzoni?

Da ragazzo, quando lo ascoltavo di nascosto, trovavo che nelle sue canzoni – così piene di chiarezza, coraggio e determinazione – ci fossero le risposte alle domande che non osavo fare ai miei genitori. E quando parlo con giovani che lo ascoltano, verifico che lo stesso vale anche per loro. Non per niente la sua popolarità è immutata ed egli resta un punto di riferimento per tanta gente.

 

 

Il tuo amico di una vita, Mauro Pagani, per il cui tramite conoscesti De André, sostiene che di Faber gli mancano “il cuore e il cervello”. Che ne dici?

Sottoscrivo. A me manca soprattutto il cuore. Ma anche il cervello, a pensarci bene: ogni volta che succedono fatti rilevanti a livello politico o sociale, mi chiedo come li avrebbe commentati lui, che aveva una grande perspicacia e che arrivava al senso delle cose prima degli altri. E che non aveva problemi a dirlo, anche a costo di scontentare chi lo ascoltava.

 

Qual è il tuo De André preferito?

Amo Anime Salve, che considero il suo album più completo, e in particolare Princesa, che è poesia pura. Ma forse in questo sono influenzato dal fatto che è l’album che più ho suonato in sua compagnia. In realtà, non c’è un solo brano di De André che non mi piaccia. Certo,  Sidún (da Crêuza de mä, ndr) è forse l’apice: d’altronde Fabrizio stesso disse, anche in pubblico, “è la più bella canzone che io abbia cantato in vita mia”.