In ricordo di Lorenzo Pellizzari

Lo scorso 7 agosto Lorenzo Pellizzari ci ha lasciato. Per noi di Duel e poi di Duellanti era un amico e un Maestro. Sulla rivista aveva una rubrica, un luogo di assoluta libertà dove elaborare il suo pensiero, sempre acuto, divertito, sarcastico. La sua biblioteca era una miniera dove trovavi tutto e non ne era geloso, anzi era pronto a condividere libri, riviste, preziose fotocopie. Che nostalgia delle sue visite nella vecchia redazione di Duel. Veniva quando voleva, anche solo per un caffé e due chiacchere sulla vita, il cinema, i libri, il calcio. Mi ricordo la sua infinita tenerezza quando Ezio è mancato. Sopra il frastuono del mondo ci rimane il ricordo. Che la terra ti sia lieve caro Lorenzo.
(M.R.)

Qui sotto trovate un pezzo per Duel sul perché passiamo la vita ad accumulare immagini.
 

Immagin/Azioni
duel n. 75, novembre 1999, p. 61

 
Quotazioni di borsa
Si va al cinema per tanti motivi. Talmente tanti, che non vale nemmeno la pena di elencarli. Ma a ben pensarci la ragione vera è una sola: crearsi – in forma di sembianza o in forma di memoria – un piccolo capitale. Una prima tendenza del risparmiatore è quella di sostituire il possesso più o meno previdente alla spesa più o meno futile, ovvero la finzione (di essere ricchi) alla vita (che resta povera). Nel corso della propria esistenza si accumulano, più o meno giudiziosamente, immagini su immagini, sino a costituire, nel macrocosmo del possibile, un personale microcosmo fatto di panorami e situazioni, di emozioni e di affetti, di avventure e di passioni. Restando nel buio della sala cinematografica si seguono le evoluzioni del presente e le ricostruzioni del passato, si vivono amori impossibili e vicende improbabili, ci si proietta in situazioni d’ogni genere e si moltiplica ogni sorta di opportunità, sino alle soglie di un pernicioso stordimento.Qui subentrano però il controllo mentale e la capacità cognitiva, che variano da individuo a individuo. Non più un magma di immagini da cui ciascuno viene travolto in pari modo, ma un sottile processo di autoaddestramento, che permette di navigare nella rete, di stabilire un percorso, di crearsi una personale configurazione. Succede in tal modo che quando si visita un luogo già frequentato attraverso lo schermo, l’immagine della finzione veritiera sovrasti quella della realtà apparente. Così come quando, più raramente, il cinema si impossessa di un luogo che ben si conosce dal vivo, alla primaria sensazione di tradimento si sostituisce ben presto il dubbio che la frequentazione diretta sia stata meno sensibile rispetto a quella riflessa. In ogni caso, l’universo che si viene a stabilire in quella sorta di “terzo occhio” di cui tutti siamo più o meno dotati è il frutto di un continuo processo di accumulazione e di cernita, di una selezione darwiniana che è alla base, anche in questo caso, dell’evoluzione. Al mondo convulso della realtà fattuale si sostituisce il mondo ordinato della convenzione filmica: un mondo da noi ordinato, a nostra immagine e somiglianza. La creazione di qualcosa. E l’accumulo produce i suoi frutti, muove la produzione di interessi, favorisce il capitale.A questa prima figura di risparmiatore che vive di luce riflessa l’esperienza cinematografica e che sostituisce man mano l’esistente all’immaginato, sino a farne un nuovo esistente (crescita e sviluppo, amore e morte, spazio e tempo gli appartengono soltanto in quanto proiezione) si affianca una seconda figura: colui che non investe in semplici emozioni bensì in valori, veri o presunti tali.

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Non più il cinema come sostituto della realtà, ma il cinema come sedimentazione di materiali, come succedersi di figure guida, come archivio del sapere. Anche in questo caso non v’è nulla di univoco, non v’è una traccia predisposta, esiste un libero arbitrio culturale. Soltanto che l’emozione lascia posto al costrutto, alla volontà di determinare un patrimonio e di farne buon uso nel tempo. Man mano che le pellicole scorrono, che ci si appropria della loro forma e del loro assunto, si determina un inventario: aggiornabile, ripensa bile, ridiscutibile, ma dove i fondamenti (o le fondamenta) devono poter restare a lungo, se non per sempre. Questa seconda figura più che al risparmiatore cauto assomiglia appunto all’investitore accorto. Sul mercato v’è di tutto, i “titoli” non si contano: vi sono quelli solidi per propria natura e quelli più a rischio o addirittura ad azzardo. Parlo, naturalmente, di tempi in cui le Borse, compresa quella del cinema, erano stabili, quando cioè si poteva giocare su un equilibrio fra le due tipologie: tenersi buoni certi nomi assolutamente garantiti e scommettere – un po’ per simpatia, un po’ per calcolo – sui nuovi entrati. Qui ne faccio, per essere augurabilmente più chiaro, un caso personale. Avevo già nel mio appannaggio Griffith e Stroheim, Chaplin e Keaton, Lang e Pabst, Dreyer e Gance, Flaherty e Ivens, Clair e Vigo, Blasetti e Camerini, Renoir e Carné, Capra e Ford, e altri che non dico. In seguito mi sono assicurato Hitchcock e Welles, De Sica e Rossellini, Huston e Losey, Visconti e Antonioni, Bunuel e Bresson, Mizoguchi e Kurosawa, Bergman e Ophüls, Kubrick e Altman, Fellini e Pasolini, Coppola e Scorsese, e altri che non confesso. Non è che di tutti mi fidassi allo stesso modo, né che di tutti fossi ugualmente convinto, ma a guardarli e a riguardarli, a studiarli e a ristudiarli mi rendevo conto di non aver fatto delle scelte sbagliate.Ovviamente non mi sono fermato nell’accumulazione man mano che le occasioni si presentavano. Acquistavo qualche titolo italiano (Bellocchio, Ferreri, 123Bertolucci), qualche titolo francese (Godard, Truffaut, Resnais), qualche titolo tedesco (Wenders, Fassbinder, Herzog), e via via mi aggiornavo. Trovavo Angelopoulos e Greenaway, Almodóvar e Kusturica, Tavernier e Lelouch, Moretti e Benigni. Diffidavo un po’ più della borsa americana, anche se Wall Street va da sempre alla grande: proprio giacché giocavo al risparmio, tutto quel dispendio mi infastidiva. Ma ogni investitore ha le sue opinioni e io mi tenevo e mi tengo le mie.Potrei ritenermi pago, appagato e ben pagato, ma quando a ogni fine anno compio la debita verifica, il mio piccolo bilancio, scopro che le cose non vanno come credevo. Gli analisti, i critici del mercato e tutta la congerie dei loro seguaci non tengono gran conto dei miei valori, o di molti di essi. Titoli su cui puntavo vengono regolarmente svalutati o viceversa gonfiati allo sproposito, alcuni escono addirittura dal listino oppure vi trionfano in modo sospetto, altri hanno tali oscillazioni da far perdere il sonno e la ragione. Fusioni, incorporazioni, privatizzazioni o strane joint venture fanno il resto. Non riconosco più il panorama, giacché ogni giorno si affollano nuovi nomi, nuove certezze che si tramutano spesso in nuove delusioni. Non mi fido dei consulenti che crescono a vista d’occhio, tutti con la loro promessa di immediati e facili arricchimenti, tutti pronti a ricredersi già nella seduta successiva. Guardo con mano trepida e quasi grifagna i miei vecchi titoli e comincio a temere fortemente per il mio capitale.