Amori che non sanno stare al mondo: l’eros adulto di Francesca Comencini

Ottime notizie in arrivo dal TFF35: il festival diretto da Emanuela Martini si distingue per opere sorprendenti di registe che alzano l’asticella del fare cinema in Italia e si spingono in territori inesplorati per pudore o estrema difficoltà, affascinanti, avventurosi. Adulti.

Come Amori che non sanno stare al mondo di Francesca Comencini (in sala dal 29 novembre) – nelle parole di Thomas Trabacchi “una commedia romantica d’autore” –, film che segna un prima e un dopo nel nostro cinema quanto a rappresentazione dei sessi. Indagine sul sentimento e il desiderio femminile e maschile che, come in Io e Annie di Woody Allen, prende le mosse da una storia finita. E ancor prima, dal romanzo omonimo della regista, uscito per Fandango nel 2013.

Una sceneggiatura che procede avanti e indietro nel tempo (rievocando in qualche modo anche i mondi paralleli di Se mi lasci ti cancello) ma che va dritta nei sentimenti, programmaticamente refrattaria all’edulcorazione. Che lascia ai suoi protagonisti la libertà di essere se stessi, tra tocchi di Truffaut, fluidità dei generi sessuali, home movies anni ’50 in pellicola che fanno da controcanto alla trasformazione dei ruoli e degli stereotipi di genere, ancora in atto. E ancora: un detour di attrazione lesbica, le insicurezze sul corpo legate all’età adulta, il peso della finzione nel piacere, un inserto che rivoluziona le leggi di desiderabilità femminile. Insomma un’opera che, come tiene a ribadire la regista, e a buon diritto, «oltre a mostrare l’amore, ne ragiona tantissimo».

Lo script è frutto delle esperienze di un gruppetto femminile di sceneggiatrici – Comencini, Francesca Manieri e Laura Paolucci. Solo un team così composito poteva dar luogo a una scena molto giocosa e insieme politicamente radicale – l’unica in bianco e nero, all’interno di un film dai cromatismi ragionati – in cui in un’aula universitaria una presenza androgina spiega a un gruppo di donne i principi dell’etica “eterocapitalista”, per poi azzerarli allegramente con un giro di valzer.

Come spiega la sceneggiatrice Francesca Manieri «scrivere il film è stato un viaggio molto strano, perché c’era un tessuto narrativo fortissimo costituito dal romanzo di Francesca, che aveva secondo noi un suono, un romanzo di voci. Da lì abbiamo desunto, più che una struttura narrativa, un senso molto forte che il romanzo portava con sé, e lo abbiamo approfondito con una serie di materiali. Tra cui Testo tossico. Sesso, droghe e biopolitiche nell’era farmacopornografica di Beatriz Preciado (Fandango, 2015, firmato Paul B. Preciado nell’edizione italiana, a transizione di genere avvenuta, ndr), a cui quella scena è ispirata. Testo filosofico tra i più importanti degli ultimi anni, che volevamo trasformare in un dispositivo di commedia. Per noi è stato esaltante, oltre a quello che nella scena l’attrice Silvia Calderoni ha messo di suo. Questo film allarga l’orizzonte del possibile del femminile, orizzonte per noi non facilmente esperibile, perché in genere le maglie del femminile sono molto strette. Qui c’è stato un travaso di libertà e ci siamo chieste fino a dove fosse possibile spingerci. Come dice Michel Foucault, siamo più liberi di quanto non pensiamo e ci siamo spinte molto lontano, fino a prendere materiali spuri come questo testo, a proporre un’interrogazione sulla contemporaneità citando un filosofo come Preciado».

 

FRANCESCA COMENCINI

Che significato ha il titolo?

L’idea del titolo mi è venuta quando scrivevo da sola questi appunti che poi sono diventati il libro. È un’espressione che trovo molto bella e che sentivo dire da mia mamma. Non so se sia napoletana: «è una persona che non sa stare al mondo» dice di chi non sa adeguarsi alle regole del mondo. Ce l’ho dentro di me, è nel mio lessico familiare. Credo sia un’esperienza che abbiamo vissuto tutti, prima o poi, nella vita: esistono degli amori che, pur essendo molto intensi e anche reali, stanno da qualche parte, in un iperuranio tutto loro. Non riescono a stare nella realtà, non sono vivibili nella quotidianità, nella vita di tutti i giorni. Un paradosso doloroso.

Il film è radicalmente femminile, anche allegramente e felicemente femminile. Ho tentato di fare un film che non fosse inquisitorio nei confronti del personaggio maschile, che non lo giudicasse. Che mostrasse due personaggi, un uomo e una donna, con dei difetti e delle qualità, punti di forza e debolezza, come li abbiamo tutti. Ho cercato di voler bene a entrambi.

Con l’incontro tra Claudia e Nina mi piaceva anche raccontare un possibile incontro erotico tra due donne, raccontarlo per quello che è. Nel film Claudia è però in una condizione in cui non può vivere una storia d’amore, perché è completamente concentrata nel rimettere insieme ciò che in lei è andato in pezzi. Quindi in questa condizione è molto difficile vivere una nuova storia. Tuttavia nella sua trasformazione ha la fortuna di incontrare lo sguardo così desiderante e così anche solenne e misterioso di questa giovane ragazza, e di avere la libertà di lasciarsi andare a quella che è più un’attrazione che non una storia d’amore. È così che funziona credo la vita ed è bello che queste attrazioni non aspettate possano avvenire ed essere raccontate nella maniera fluida e naturale in cui accadono. È vero che questa storia finisce, ma la frase di Nina vorrei che arrivasse in maniera potente: «tu non hai bisogno di due braccia forti che ti proteggano e soprattutto non sei brava a farglielo credere». Per me Nina è molto importante anche solo per questa frase, perché molte donne vivono in una narrazione in cui credono di aver bisogno di una protezione di cui non hanno bisogno e molto spesso la cercano laddove protezione non c’è.

LUCIA MASCINO (Claudia)

Si avverte nel film un certo senso di battaglia, fin da quando Claudia entra in scena contraddicendo Flavio e citando facendo riferimento allo scontro tra guerra e natura femminile nella cultura classica.

Nella battaglia avrebbe dovuto essere il primo titolo del film, un senso che è presente e che viene da Shakespeare, “nella battaglia pensa a me” (da Riccardo III). Nelle note di regia Francesca ha scritto una cosa molto bella su quell’azzuffarsi in piena notte tra Claudia e Flavio. Una scena importante non tanto perché lì Claudia capisce che lei desidera un figlio e Flavio no, ma perché intuisce di volere una totalità che lui non cerca. 

Come definiresti Amori che non sanno stare al mondo?
Un film sull’amore. Non contro l’amore, ma sull’idea che il naufragio di una storia d’amore non debba coincidere con il fallimento di una vita. Un film sulla costruzione dell’identità, che punta a dire che la tua identità non può naufragare insieme a una storia d’amore, per quanto sia difficile ricostruire la propria identità dopo averla “unita” con quella di una grande passione, di un grande incontro. Mi piace perché riguarda l’autodeterminazione, non solo l’amore.

Il film ha anche dei momenti di comicità irresistibile, come la tua scena nel bagno della discoteca dove lavora Nina (Valentina Bellé), la studentessa che ti strappa un appuntamento.
È una scena che amo molto, e credo di aver preso tutto il potenziale comico possibile. Il film ha richiesto una grande apertura di cuore, di  entrarci dentro a cuore aperto. Il mio personaggio per me non è aggressivo. Per come la vedo io, l’aggressività nella donna è unghia artigliata, tacco, sicurezza di sé, imponenza. È tutt’altra cosa. Claudia non è aggressiva, è sofferente. Risulta aggressiva ma solo perché soffre ed è impetuosa. Perché mi piace questo personaggio? Se fosse certa, solida, pretenziosa del suo spazio, non avrei così simpatia per lei. Invece per me lei è tutta nelle parole di De André in Se ti tagliassero a pezzetti: “con la tua nuvola di dubbi e di bellezza”. Claudia non è un’isterica, ma una donna che cammina in una nuvola di dubbi, di bisogni.

Tra le particolarità del film ci sono le scene di nudo integrale e di sesso, molto naturalistiche, che sorprenderanno un pubblico purtroppo sempre meno abituato a vedere corpi esposti a favore di macchina.
Da spettatrice detesto le scene di sesso nei film. Le ho amate solo in Intimacy di Chéreau e pochissime altre. Le trovo inutili, non ne vedo il motivo, e in più imbarazzanti. Il sesso è una cosa che non puoi ripetere, al cinema. Detto ciò, questo film secondo me chiedeva un’esposizione. Essendo un film sul sentimento, anche ossessivo, su questo bisogno viscerale, sul bisogno dell’interno di una persona di incontrare l’interno di un’altra, non poteva non prevedere il corpo, esposto in tutti i suoi aspetti. Da questo punto di vista non è stato proprio una passeggiata, però mi piace che sia così sbottonato, in quell’ambito, che non si risparmi.

Che tempi ha avuto la tua preparazione al ruolo?
Ho ricevuto la sceneggiatura sei mesi prima dell’inizio delle riprese, che dovevano cominciare prima, ed è stato un bene perché sono lentissima. Non ho provato mai le scene ma ho cercato di immaginare il punto di vista di lei, l’ho tenuto come se fosse una storia vera, nella mia immaginazione, qualcuno che conosco. Poi nei venti giorni prima dell’inizio del film abbiamo fatto delle prove con Francesca e Thomas ma molto “larghe”, non sulla scena, ma più mirate a creare un clima tra di noi.

I motivi che ti hanno convinto a fare il film?
Scherzi? Aspettavo da tutta la vita un film con una sceneggiatura così, una regista così, un personaggio così! La prima folgorazione l’ho avuta leggendo la sceneggiatura, che ho trovato intelligentissima, ironica, inusuale, che beccava un tema importante come la relazione uomo donna nell’età adulta. Che anche se con un gran divertimento, le cose le dice, come nella scena della lezione di Silvia Calderoni sul “mercato capitalistico eterosessuale”.

Nella tua prima scena ti infili – appena sveglia – un cappello che mi ha ricordato Diane Keaton in Io e Annie. Annie Hall è stata d’ispirazione per il film?

Abbiamo parlato molto di quel film, Francesca ama profondamente Woody Allen. Quando quel film finisce ti chiedi “ma perché quei due si sono lasciati?”, li vuoi ancora insieme, e anche nel nostro film c’è un po’ questo. Tutto sommato si guerreggiavano, e in quello scambio notturno di corpi, di energia, di cui dicevo prima c’è qualcosa di prezioso, perché significa che c’è qualcosa a cui si tiene. La loro non è una guerra di aggressione ma uno scambio.

 

THOMAS TRABACCHI

Questo film arriva in un momento storico in cui è più che mai in discussione il rapporto tra sessi. Il patriarcato è sotto attacco, ma il tuo personaggio mi sembra molto avanzato rispetto alla media.
Sì, il film porta un punto di vista femminile direi necessario. Un passaggio che secondo me sta avvenendo ancora troppo lentamente. Cioè, il patriarcato è in crisi, sotto attacco. Anche Flavio, il mio personaggio, si muove attraverso dei meccanismi, delle dinamiche, che sono ancora risentono di quel tipo di impostazione un po’ se vogliamo miope, poco incline a guardarsi dentro.

A questo proposito mi ha colpito la scena in cui insieme ad altri due personaggi maschili commentate la cura delle rispettive barbe e Claudia dice che ha nostalgia per quell’età in cui gli uomini parlavano solo di motori donne e calcio… E tu rispondi che quella è un’età dell’oro…

… che non è mai esistita…

Ecco, in che senso?
Forse sarebbe più opportuno chiederlo alla regista, ma è interessante la risposta di quello scambio di battute, ammesso che sia esistita un’età dell’oro. Quello che dice Claudia è che anche se non è mai esistita, faceva stare bene le donne. Questa battuta si collega alle immagini di repertorio che ci sono del film, che raffigurano coppie degli anni ’50. Credo che Francesca non le abbia inserite per nostalgia degli equilibri di coppia di quel periodo, perché parliamo di un Paese estremamente maschilista, ancora oggi e allora di più. Però è come il rapporto tra padre e figlio. Io ho due figli e la figura del padre oggi è assolutamente diventata liquida anch’essa, il padre autoritario è obsoleto, così come il rapporto tra insegnanti e alunni, sta cambiando qualcosa ma non c’è ancora una forma. In un momento di trasformazione come questo, quello che c’è è quasi mostruoso. Non c’è più quello di una volta e non c’è ancora quello che sarà. Francesca cita spesso in proposito un proverbio cinese che dice più o meno «ciò che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla». Insomma, quel tipo di mostruosità che c’è durante una metamorfosi, prima che fiorisca qualche cosa mi auguro di più chiaro e positivo. Cioè una figura del padre e dell’uomo diversa, più incline alla gentilezza e all’autocritica.

In effetti la progressione narrativa, i comportamenti, le reazioni di Flavio alle azioni impulsive, bellicose di Claudia sono spesso spiazzanti.
Perché Flavio è un uomo intelligente e anche l’operazione di Francesca lo è, perché il film non dà giudizi ma esprime un punto di vista.

Una qualità del film è che entrambi i vostri personaggi si espongono con molta onestà e verità.
Sì, però poi di fatto Flavio quasi volta le spalle a se stesso. Cioè io credo che poi lui scelga di scappare, perché questo grande amore con Claudia in qualche modo lo denuda, denuda il suo ruolo, che è molto chiaro, per lui: è un professore di successo, è un uomo che non ha frustrazioni, di grande ragionamento, tutto fila liscio. Poi arriva questa specie di valanga, questa valanga d’amore che pretende, non si accontenta, che è totalizzante. Anche troppo, quindi la scelta di Flavio è comprensibile, ma io temo che quest’uomo andando via si metta nella condizione di non progredire, nel nuovo rapporto.

Cosa pensi della scena surreale di “economia eterocapitalista”, per cui un uomo «sta sul mercato fino a 65 anni, la donna a 45 esce dal mercato sessuale (mondo lesbico a parte, per cui a 45/50 è ancora adolescente)»?
Che è tristemente vera. La scena ha una cifra non proprio grottesca ma quasi, ma stiracchiando dice una verità. Purtroppo per le donne. La mercificazione del corpo, di cui Pasolini parlava in tempi non sospetti, si è assolutamente imposta.

Quali sono i motivi che ti hanno fatto decidere di partecipare al film?
Intanto il ruolo era bellissimo, la sceneggiatura perché attraverso un percorso non convenzionale, quindi non uno svolgimento classico, questo tipo di back and forward fa emergere in maniera esplicita le emozioni. E una sceneggiatura leggendo la quale capivi sempre dove stavi, pur andando avanti e indietro. Quello che ha suscitato in me è stata una grande partecipazione emotiva alla fantastica, tragica e divertente storia di Claudia e Flavio, che poi finisce.

Colpisce della storia anche la scelta di mostrare i corpi, di affiancare a una sincerità programmatica anche la nudità effettiva, l’esposizione epidermica.
Nello specifico come attore non mi preoccupa denudarmi perché è in ultima istanza quello che l’attore è chiamato a fare, sia che si spogli o no. In più, se è motivato, come qui. Un altro motivo forte è stato voler lavorare con Francesca, che ha molta esperienza, anche documentaristica, ho trovato bello lavorare con lei perché è una regista coraggiosa, che non ha paura di lasciare libertà, anche autoriale, agli attori. Non è una regista egocentrica, che si cristallizza su una forma preconcetta, legata a un personaggio o a una situazione. La forma poi viene da sé, e anche i suoi collaboratori erano elastici. Ci sono molte scene che sono state “rubate” a nostra insaputa e molte scene in cui c’è stata data la libertà di azione. Questo significa utilizzare il tempo sul set diversamente, perché il tempo stringe sempre, sul set, e se il direttore della fotografia deve aspettare a mettere le luci dove l’attore sente di voler andare, capisci che “perdi” del tempo. Secondo me non lo perdi ma lo dai, favorendo una situazione organica, quindi mettendo l’elemento umano prima dell’elemento meccanico o tecnico. Lo dicono tutti i registi, nessuno lo fa, anche perché la produzione non vuole. Francesca ha questo coraggio, si è ritagliata lei questa libertà e l’ha regalata a me e Lucia, ovviamente non in tutte le scene. Il risultato è che noi e gli altri attori restituiamo una plausibilissima verità, e quindi che non si reciti, che sia uno spaccato di vita, senza per questo entrare in una specie di neorealismo o stile documentario. Non è quella la cifra del film, che è di finzione.

E che mescola con grande misura commedia e tragedia. Come lo definiresti?
Un film romantico? Una commedia sentimentale? Non lo so, ho letto una critica che diceva che giudicava un’indecisione della regista questa impossibilità di poterlo definire, che per me è una ricchezza. Se pensi a un film come Harry a pezzi di Woody Allen, o anche Alice, due film che amo molto, in cui ridi o sorridi di una tragedia… Il film è difficile da definire. Per me ha un taglio ironico e un modo leggerissimo di andare dentro uno degli aspetti più pesanti nella vita di un individuo, ossia quando soffri per amore. Una commedia romantica d’autore. In molti forse ci si potranno riconoscere, anche quelli che non hanno il coraggio di andare fino in fondo agli impulsi che metterebbero in crisi una coppia. Flavio ha un coraggio terrorizzato ma non lo sa.

Mi sembra un film sulla sopravvalutazione dell’amore, che lavori in questo senso contro il genere “romantico”.
Forse può essere anche un film curativo per chi è ancora alla ricerca di una soluzione in un’eventuale fine di un amore. Potrebbe essere salvifico.