Ricci/Forte: “Finché c’è vita c’è speranza”

In Italia vengono etichettati come gli “enfants terribles” del teatro italiano. I loro spettacoli non lasciano indifferenti e in passato sono anche stati vietati. All’estero vengono osannati e le sale sono gremite di spettatori di tutte le età. Sono Stefano Ricci e Gianni Forte o per meglio dire Ricci/Forte. Nel 2014 sono stati chiamati a guidare la ventitreesima edizione dell’École des maîtres, il corso internazionale itinerante di perfezionamento teatrale che mette in relazione giovani attori diplomati con celebri registi. Lo scorso ottobre nell’ambito di RomaEuropa ha debuttato il loro nuovo lavoro, Darling ispirato all’Orestea di Eschilo. Abbiamo incontrato Stefano Ricci a Milano in occasione delle repliche di Still Life, spettacolo incentrato sul bullismo omofobico, la discriminazione, il mobbing psicologico che, in un Paese civile, dovrebbe essere portato nelle scuole.

 

 

Still Life è il primo spettacolo di Ricci/Forte che non parte direttamente da un testo letterario.

ricciforte-STILL-LIFE-2013-ph.-Daniele+Virginia-Antonelli-11È vero, è la prima volta. Da qualche tempo cercavamo di raccontare l’indignazione verso un Paese, l’Italia, inospitale da un punto di vista culturale. Il pretesto è stato l’ennesimo caso di morte di un quindicenne che si è tolto la vita impiccandosi con una sciarpa. Lo spettacolo racconta, però, molto altro. Non è incentrato semplicemente sul mobbing identitario, sulla difficoltà di vivere sulla propria pelle una differenza sentimental-sessuale. C’entra anche un discorso, direi abbastanza programmatico, su uno Stato che non tutela la differenza e quindi, automaticamente, si affianca una desertificazione culturale che appartiene a un preciso progetto di mantenere sedato un popolo dandogli la soddisfazione di bisogni indotti elementari. Still Life nasce da una committenza (la celebrazione dei vent’anni del festival Garofano verde che allo stesso tempo è diventata la celebrazione di un funerale perché dopo 20 anni il Comune di Roma ha deciso di tagliare qualunque forma di finanziamento). Abbiamo sentito la necessità di mettere in scena le nostre riflessioni sul senso ostinato di uno Stato e sulla sordità rispetto a quello che dovrebbe essere considerato un valore perché nell’adolescenza è l’apertura prospettica di sguardi che fa la differenza e che, probabilmente, in qualunque altro Paese evoluto sarebbe il valore aggiunto per costruire una società migliore. Invece, da noi, chiunque è portatore sano di una differenza viene contenuto o, nei casi peggiori, messo al muro e costretto all’autoestinzione. Ecco perché non parliamo di suicidi, ma di omicidi.

 

Una presa di posizione fortemente politica…

Forse basterebbe cambiare lo sguardo sulle cose in ognuno di noi, senza essere promulgatori di chissà quale legge sui diritti… Anche se, nel 2015, in un Paese evoluto le leggi ci vorrebbero per dare quel senso di civiltà e non di medioevo culturale. Da parte nostra, per il mestiere che facciamo, crediamo sia opportuno scuotere le coscienze in tal senso. Il tentativo è quello di credere che ognuno di noi nel proprio piccolo può fare qualcosa. Non siamo noi i primi e non è la prima volta che affrontiamo un discorso di difficoltà interrelazionale. Siamo tutti nascosti dietro i telefoni e crediamo di essere in contatto col mondo intero. In realtà viviamo sempre più isolati e non riusciamo più a percepire lo scambio reale con l’altro.

 

Va in questo senso il coinvolgimento del pubblico nei vostri spettacoli? In Still Life in maniera anche più forte tanto che il Teatro dell’Elfo ha messo in guardia gli spettatori su questa possibilità. Un avvertimento curioso…

È la prima volta che ci capita. Ne abbiamo parlato e ci è stato raccontato che in passato avevano avuto richieste di risarcimento perché il pubblico non vuole essere né toccato, né sfiorato. Dentro di me ho pensato: “Ma che tipo di pubblico è un pubblico che pensa di fruire del mezzo teatrale come se fosse nel salotto di casa sua a vedere la televisione?”. Per noi il pubblico è agente, reattivo. È all’interno della performance. Abbiamo sempre cercato una condivisione, facendo sì che il teatro fosse un’agorà, uno spazio in cui confrontarsi con persone che, comunque, la pensano allo stesso modo. Noi facciamo e diciamo qualcosa, ma guardiamo il pubblico continuamente. Facciamo capire che siamo lì per loro, non c’è nessun tipo di finzione o storiella dietro la quale rilassarsi per ammirare i costumi o per assistere allo svolgimento di una storia. In genere le luci sono molto aperte e illuminano la platea proprio per far capire che non ci sono artifici. È un fattore incidentale che noi siamo in scena e il pubblico è in sala, potrebbe essere il contrario. Quello che diciamo è sicuramente qualche cosa che le persone che vengono a vedere i nostri spettacoli hanno pensato, però non hanno mai avuto o la capacità o l’occasione di fermarsi a riflettere sulla possibilità di dirlo ad alta voce. Noi lo diciamo ad alta voce anche per il pubblico. Devo ammettere che l’avviso mi ha creato qualche perplessità perché non credevo che Milano fosse così. E un po’ mi spiace perché in genere non vuoi avere delle rivelazioni prima di vedere uno spettacolo. Invece avere tutto già pronto, è tipico del nostro tempo. Questa cautela nel muoversi nella nostra vita di ogni giorno, sapendo già tutto quel che succederà, la trovo devastante. Non c’è più curiosità.

 

E all’estero come vengono accolti i vostri spettacoli?

All’estero questo atteggiamento non c’è. Ci sono realtà difficili, come quella di Mosca dove il pubblico è abituato a un teatro molto più tradizionale e quando noi abbiamo lanciato i performer russi in mezzo al pubblico anche loro hanno avuto delle reazioni strane. Poi, però, hanno capito e condiviso. Qui invece c’è un rifuggire da qualunque contatto, una voglia come di isolarsi. È come quella che io chiamo la sindrome giapponese: persone che vengono a teatro e devono fotografare tutto. Che bisogno abbiamo di catturare l’immagine, di avere un archivio se questo ci impedisce di entrare in contatto con l’altro e di vivere quello che succede? Per me è incomprensibile. Comunque, durante gli spettacoli, non guardo mai chi piange disperato ed è entrato in contatto, ma chi ha una sorta di freno per cui sorride, ridacchia, parlotta nei momenti clou. Mi concentro su chi viene a teatro con l’intenzione di passare del tempo pensando di vedere qualcosa che sia come la televisione. Così non serve a niente, non mi migliora come individuo. Bisognerebbe provare a guardare oltre la superficie delle cose. Capisco che siamo abituati e viziati a non approfondire, però, ogni tanto, bisognerebbe cercare di bucare l’immagine e di andare a vedere quello che c’è sotto.

 

Forse non siamo più abituati a farlo…

È in atto un imbarbarimento lento e progressivo, ma iniziato vent’anni fa. Purtroppo partito dalla televisione che ha abbassato anche il livello di curiosità. Tutto è prestabilito, programmato, non lasciamo più spazio all’imprevisto, alla curiosità che accada qualcosa. Comunque noi continuiamo a opporci strenuamente proponendo questa fantasia. Anche se la fantasia è una moneta che in questo Paese non paga.

 

Nel vostro lavoro voi contaminate generi, stili, citazioni, alto e basso… Ci sono quindi appigli per diversi livelli di lettura.

Sì, ci sono sempre svariate stratificazioni culturali. Ma non per questo si tratta di spettacoli criptici. Darling, l’ultimo lavoro che abbiamo fatto concede meno. Se non entri dentro e non hai un substrato culturale, ma anche di sensibilità, per comprendere, probabilmente, rimane tutto un po’ lontano perché il fattore emotivo lascia il posto a un’esasperazione e dilatazione dei tempi che sono i nostri tempi. A differenza degli altri spettacoli, dove c’è un ritmo molto più concitato, qui abbiamo adottato il flusso dei giorni, molto più lungo, per far capire l’estenuazione nell’assenza dei rapporti che c’è oggi. In genere comunque procediamo con qualcosa che rassicuri lo spettatore e in tal senso parliamo di dimensione pop: citazioni basse, punti di riferimento… È come la boa in acqua. Poi improvvisamente facciamo sparire le boe per vedere la reazione. C’è chi annaspa e affonda e c’è chi, invece, comincia a nuotare e allora comprende che quelle boe servivano per essere introdotti all’interno della foresta però poi te la devi cavare perché la foresta crea miliardi di prospettive per recuperare la strada.

 

Parliamo della situazione della cultura nel nostro Paese. L’avete toccata con mano visto che Darling ha debuttato in RomaEuropa al Teatro Eliseo di Roma che ora ha chiuso i battenti.

Fino all’ultimo momento non sapevamo se avremmo potuto fare lo spettacolo. Quando siamo entrati in teatro per il montaggio ci hanno detto che il prefetto aveva concesso l’autorizzazione ad andare in scena. Il teatro era sotto sfratto da mesi, non c’era personale tecnico, non c’era più niente, era una scatola vuota. Con Gianni abbiamo cambiato i testi per settare l’idea del senso di giustizia, del fatto che non siamo tutti uguali e dell’imbarbarimento che c’è in Atene nella terza parte dell’Orestea, riscrivendoli proprio per parlare del teatro. In quel luogo lì diventava un’accusa fortissima perché tutti sapevano che sarebbe stato chiuso. E così è stato, subito dopo, durante le repliche di Operetta burlesca, lo spettacolo di Emma Dante. Questo racconta una città, ma racconta anche uno Stato dove nessuno fa niente, nessuno si scandalizza. A Roma i teatri stanno chiudendo uno dopo l’altro. Il Valle da mesi è ritornato in mano all’assessorato, ma passerà un’altra stagione e quel luogo rimarrà chiuso. Poi ci rimproverano per essercene andati all’estero… Ma qui come si fa a lavorare? Purtroppo anche il sistema teatrale è arretrato, si è fermato e continua a proporre sempre la stessa dinamica che è quella paratelevisiva. 

 

Da tempo si parla del vostro primo film. Ci sono notizie?

È da un paio d’anni che ci propongono di fare cinema. E non ti dico che tipo di proposte ci arrivano. È come se, anche lì, ci fosse una specie di catena di montaggio. Perché il cinema italiano deve raccontare soltanto storie di quarantenni in crisi? Io continuo a riguardare i film di Fellini e a dirmi che questo era il cinema. Come ci siamo trasformati, in che modo? Qual è stato il momento in cui abbiamo capito che non saremmo più tornati indietro? Comunque alla fine siamo riusciti a trovare una liaison tra una produzione francese e una italiana e ad avere carta bianca. Abbiamo specificato che non sarebbe stato un film brillante. A gennaio cominciamo a scrivere il film. Ci siamo presi due mesi di tempo per stendere le basi della sceneggiatura.

 

E per quanto riguarda i prossimi progetti teatrali?

Il lavoro che faremo nel 2015 prosegue nel raccontare questo Paese. Faremo Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Poi, per il 2016, se ci danno i diritti faremo un lavoro su Petrolio. Da quando abbiamo iniziato con Troia’s Discount, continuamente viene citato il nome di Pasolini, per cui a un certo punto ci siamo detti che dovevamo incrociarci. L’anno prossimo sono i 40 anni della sua morte e per questo anniversario noi non faremo niente, ma subito dopo sì. Quindi, se riusciamo, da agosto inizieremo a lavorare con dei workshop sul progetto. A giugno torneremo a Mosca per una nuova produzione da We, celebre romanzo di Zamyatin, caposaldo della letteratura russa. Proprio perché è così importante i russi non sono mai riusciti a metterlo in scena. È fantapolitica, un primo Orwell diciamo, e racconta lo stato comunista assolutamente inquadrato, futurista. Perfetto in questo momento visto che c’è Putin, un pazzo scatenato.

 

Avete limitazioni quando lavorate in Russia?

La prima volta che siamo arrivati ci siamo posti il problema visto che i ragazzi con cui lavoravamo erano molto spaventati (erano appena state arrestate le Pussy Riot). Poi, dopo una settimana di lavoro, con Gianni ci siamo confrontati e ci siamo detti che non è il ruolo dell’artista quello di porsi dei limiti. Ne abbiamo parlato con il produttore dicendo che noi avremmo fatto il nostro lavoro e che toccava a lui difenderci. E così è stato. Abbiamo creato lo spettacolo che è stato portentoso, sia per il pubblico sia per i ragazzi che non erano abituati. I primi giorni avevano bisogno dello spazio vitale tra uno e l’altro, non si toccavano, erano molto formali. Alla fine è stata una delle esperienze più belle dal punto di vista umano perché costruisci sì uno spettacolo, ma costruisci un’avventura umana. Quei ragazzi sono cambiati, è cambiato il loro modo di rapportarsi al loro mestiere. In Russia gli attori sono intercambiabili, non hanno dignità, né autostima. Lavorano per i teatri, ma è come una catena di montaggio, vanno a fare uno spettacolo, poi un altro. Li abbiamo rimessi al centro dell’attenzione della scena, restituendo loro una dignità di interpreti.

 

Nei vostri spettacoli agli attori è richiesto molto, da un punto di vista fisico ed emotivo. Ci racconti il vostro metodo di lavoro?

Lo scorso anno, da fine agosto ai primi di ottobre abbiamo fatto l’École des maîtres e ci siamo trovati con 20 attori provenienti da cinque Paesi differenti che non avevamo scelto. Quindi 20 persone che arrivano e che neanche sanno esattamente che tipo di lavoro facciamo, magari hanno visto giusto un paio di video dei nostri spettacoli. Non conoscendoci, molti pensano che l’attività di Ricci/Forte sia molto generica, un lavoro violento, ma a livello quasi coreografico. Trasformarli, rivoltarli come un calzino, far capire loro che, invece, qualunque gesto è l’esemplificazione e l’espressione di uno stato emotivo, e quindi arriva dopo, è faticoso. Durante il percorso due ragazzi, un croato e una portoghese, sono stati allontanati. Soffrivamo noi e soffrivano loro, non stavano bene in quella situazione perché continuavano a mantenere l’attitudine da attori, del dover recitare. Recito e quindi mi devo nascondere come persona dietro un ruolo e tanto più sono bravo a nascondermi, tanto più ho il plauso del pubblico che mi guarda. Questo è un atteggiamento di vanità che ha a che fare con il melodramma, ma non c’entra niente con noi. Il rapporto tra l’attore e il pubblico è paritario, non c’è un subalterno, non devi piacere a lui. È come un rapporto tra due persone: ti faccio vedere quello che sono io e quello che sto facendo insieme a qualcun altro. Ti piace, non ti piace? Ha poca importanza. L’importante è che ti arrivi, nella forma più giusta, quello che ti voglio comunicare. Noi partiamo da qui. È difficile perché proviamo a raccontare e a imbastire il tutto sul vissuto degli attori. Le loro esperienze ci servono a livello improvvisativo e poi con Gianni gli costruiamo sopra le parole che sono altre perché altrimenti sarebbe psicodramma, però sono annaffiate dalle loro sensazioni, dal loro vissuto. E nel momento in cui le percorri senti che c’è un peso diverso, le tue impronte sul palcoscenico sono differenti perché sono profondamente legate a te.

 

Una sfida da parte vostra e da parte degli attori…

Non è facile, non sempre trovi una connessione ideale. Anche nel nostro gruppo di sempre, ci sono Anna Gualdo e Giuseppe Sartori ai quali non devi dire niente perché oramai mi anticipano, sanno già prima di che si tratta. Ma sono casi rari. Per gli altri c’è una volontà. L’unica cosa che riscontro – e lo diciamo spesso con Gianni – è che se c’è un talento è quello di metterli a loro agio. Riusciamo a creare uno spazio in cui loro si fidano di noi. Di ogni singolo gesto loro devono sapere perfettamente perché lo stanno facendo e che effetto dà, che cosa significa per chi sta guardando. Il lavoro è millimetrico. Non c’è improvvisazione nei nostri spettacoli, è matematica. Se sposti leggermente una cosa, rischi di farti male o di non ottenere l’effetto voluto. È come la musica, c’è una composizione quindi deve essere tutto assolutamente preciso. È veramente un’equazione. A questo aggiungi uno stato emotivo molto forte perché gli attori devono essere presenti per tutto il tempo della performance. Come suggerimento dico loro di entrare in scena come se fossero al terzo atto (nella suddivisione classica hai il tempo materiale per far crescere il personaggio e nel terzo atto arriva il tripudio) e di iniziare lo spettacolo con quello stato lì. Allora chi sta guardando capisce che c’è un coinvolgimento differente. Senza contare che per Still Life ognuno di loro è stato scelto per la sua parentela con il tema perché, personalmente o in famiglia, è stato vittima di casi di suicidio o di vessazioni di questo tipo. Li ho scelti senza dirglielo, poi gliel’ho rivelato. Perché – e questo lo dico sempre agli attori – è la vostra vita, la vita di ogni giorno che vi porta a venire qui e ad avere un altro respiro. Tra un mese è chiaro che lo spettacolo sarà differente perché è vivo, fa parte di voi. Insegnare o rivelare questa cosa è complicato, specialmente se hai un gruppo molto nutrito di persone con cui lavorare.

 

L’uomo è comunque sempre al centro del vostro universo.

Assolutamente sì. Solo in Darling c’è questo altro elemento – il container – che abbiamo utilizzato, ma perché aveva una funzione precisa, doveva essere questa installazione che sotto le loro mani si frantuma. È la capacità dell’uomo di distruggere il metallo. Abbiamo fatto in modo di averlo dall’inizio delle prove, per farlo diventare il quinto performer. Gli attori hanno dovuto interagire sempre con il container. Ed è stato faticoso, si sono fatti male tantissimo, continuamente. Perché non era scenografato, ma era un container vero che però poteva essere smontato. Pesa tonnellate e loro lo smontano tutto. Ma questo ha sempre a che fare con la forza del superuomo, della supereroina, che cerco. È la capacità dell’uomo di trovare la forza dentro di sé. L’idea che uno scricciolo riesca a fare certe cose è un segno forte. 

 

Quindi alla fine c’è una speranza…

Sempre. Perché la capacità di recuperare, di riprendere in mano la nostra vita e girarla a nostro favore è dentro di noi, anche se si continua a cadere. Ma non è importante quanto cadi, l’importante è il modo in cui ti rialzi. Questo è fondamentale. Ci viene rimproverato di essere scuri, disperanti. Ma fa parte della nostra esistenza, bisogna essere lucidi e capirlo, ma nonostante questo si va avanti. È quello che diciamo in Still Life: bisogna vivere al quadrato, anche per chi non è più tra noi, per chi non ha avuto il coraggio o per chi semplicemente non c’è più. È un valore troppo importante per lasciare che il nostro corpo viva in uno stato di letargia per il tempo che ci resta. Si deve andare avanti. Quando mi chiedono di cosa parla, io dico che è uno spettacolo sull’amore. Perché è l’amore verso di noi, verso il fatto di essere in vita. Trovo sconvolgente e proprio non tollero l’abdicare, l’arrendersi al flusso. Continuerò a lottare in questo senso per fare, finché me lo permettono lavori, che facciano credere che ci vuole un impegno nostro per poter trasformare le cose.