La vita e il cinema: al Far East online l’omaggio a Hirobumi Watanabe

Indipendente a oltranza, animato da una sensibilità profondamente nipponica eppure aperto a forti influenze che lasciano sottintendere una cultura cinefila onnivora: Hirobumi Watanabe è il protagonista dell’omaggio retrospettivo del 22mo Far East online, con quattro film su una filmografia ancora molto giovane (ha esordito nel 2013) ma già abbastanza ricca, che in sette anni ha quindi prodotto altrettanti titoli. Un’occasione per confrontarsi con un altro outsider del mercato indipendente nipponico, dotato di uno stile immediatamente identificabile e riconducibile ad alcuni elementi fissi: un bianconero documentaristico, inquadrature statiche e studiate con geometrica precisione, nel cui reticolo si snodano storie di vita quotidiana, che spesso coinvolgono lo stesso regista o chi gli sta vicino, in una formula a metà fra il videodiario e la riflessione straniante sulla ripetitività delle situazioni della vita. Non a caso, per il suo progetto più teorico, Life Finds a Way del 2018, sono stati mossi paragoni con il più classico 8 e ½ felliniano, per l’idea della “storia” che segue le peripezie di un regista in crisi, ovviamente interpretato sempre dal nostro. Rispetto al modello, però, Watanabe aggiunge una minore tendenza alla trasfigurazione e una cifra più nevrotica che può far pensare a certe opere di Woody Allen. Occasione ideale, per lui, per far capire anche il suo pensiero, attraverso lunghi monologhi spesso polemici nei confronti della pratica del “fare film”, con tutte le difficoltà annesse (da quelle produttive al confronto con la critica), contrapposte al piacere cinefilo di citare ora Spielberg, ora altri autori pure diversissimi da lui. (In apertura un’immagine tratta da I’m Really Good).

 

I’m Really Good

 

Di certo, funziona di più il gioco schiettamente “narrativo” quando entra maggiormente in gioco la “fiction” (le virgolette sono quantomai d’obbligo), come accade nei due lavori più interessanti del quartetto: dapprima Cry, del 2019, in cui lo stesso Watanabe interpreta un allevatore di maiali che si divide fra le mangiatoie dei suini e la calma della casa in cui riposa e prende appunti per il giorno dopo. Un’opera priva di dialoghi e costruita tutta sulla cacofonia dei suoni naturali, dal vento che “gratta” impetuoso sui microfoni ai grugniti dei maiali che creano una straniante sinfonia in grado di descrivere tanto la frenesia del vivere quanto il senso frustrante della ripetitività degli eventi. A questo segue il recentissimo I’m Really Good – del 2020 e presentato in anteprima mondiale alla manifestazione friulana – che segue la giornata della piccola Riko, una bambina sveglia che pure si divide fra la casa in cui fa i compiti, si lava i denti e accoglie un venditore ambulante (sempre Watanabe, presenza immancabile), e la strada verso la scuola. Se Cry crea una sinfonia intensa e a tratti persino disturbante, in questo caso la leggerezza del tocco evoca una delicatezza meravigliosa di una vita che nella ripetitività trova un suo afflato vitale sincero. All’interno di schemi consolidati e che possono ricondurre a una tendenza formulaica di certo cinema indipendente contemporaneo, dove lo spazio per il sorriso è sempre costretto all’interno di rappresentazioni ben codificate (si pensi ai film di Wes Anderson), Watanabe riesce così a ritagliarsi momenti gustosi, con una preferenza per nevrosi surreali accostate a una serenità giocosa. Amante dichiarato di un cinema poetico e insieme realistico (negli interventi online cita anche Pasolini), pesca dagli elementi del suo quotidiano, inserendo figure costanti, come la simpatica nonna centenaria (purtroppo scomparsa pochi mesi fa e assente quindi da I’m Really Good), dando l’impressione di un universo perfettamente definito. Questa natura “interiore” ma allo stesso tempo aperta a influenze inaspettate la si ritrova anche nel gusto musicale, influenzato dalla collaborazione costante con il fratello musicista Yuji, che mescola brani di classica, composizioni evidente ispirate al lavoro di Nino Rota, omaggi al rock d’annata (Party ‘Round the Globe è costruito sul viaggio verso un concerto di Paul McCartney) e canzoni del gruppo post punk giapponese Triple Fire: Life Finds a Way nasce infatti come tentativo di portare al cinema la loro musica, che finisce invece per diventare il contrappunto lirico per le ennesime (dis)avventure del regista. Il suo cinema diventa così un bizzarro flusso di coscienza dove la rigidità degli elementi nasconde, per fortuna, sempre qualche sorpresa in più.