L’anarchico José Mojica Marins, poeta della crudeltà

Glauber Rocha lo definì “il più grande regista nel mondo intero”. E il giornalista brasiliano André Barcinski scrisse che “è un filmmaker con talento intuitivo e istintivo”, che “la sua mancanza di conoscenze teoriche può far sembrare amatoriali i suoi film, ma dà a essi una forza brutale, grezza”, che “è veramente un cineasta naïf”. Dal 19 febbraio 2020 il cinema è orfano dello sguardo salutarmente “malato” di José Mojica Marins, scomparso a 83 anni a São Paulo, dove era nato il 13 marzo 1936, e autore di una quarantina di film tra gli anni Cinquanta del secolo scorso e gli anni Dieci del nuovo secolo. Pur non avendo “studiato”, Marins aveva il cinema “dentro”, per esso abbandonò la scuola, per seguire una vocazione derivatagli anche dalla frequentazione delle sale cinematografiche popolari (il padre ne gestiva una e regalò al figlio undicenne una cinepresa 8mm). La strada è “segnata”, arriveranno invenzioni memorabili (come il personaggio di Zé do Caixão) e attacchi spietati da parte della censura e della chiesa. Marins mette in scena la sua leggenda, dietro, davanti (è lui stesso a incarnare il becchino Zé, in cerca della donna perfetta che lo renda padre di un bambino cui tramandare le sue pratiche macabre) e oltre la macchina da presa (disegna fumetti per una rivista di cinema da lui creata).

 

 

Due sono stati, in Italia, i festival di cinema che, negli anni Novanta, hanno permesso di immergersi nel mondo anarchico dell’autore brasiliano, nel suo realismo eruttante dai magmi più insostenibili di un horror carnale e putrescente: l’allora Cinema Giovani di Torino, nel 1993, e soprattutto, nel 1997, quel folgorante esperimento di contaminazioni che fu, tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta, Riminicinema, con José Mojica Marins ospite a introdurre i film con la sua maestosità teatrale. Ovvero, creando un cortocircuito fra schermo e fuori schermo, facendo “uscire” dallo schermo Zé, con il suo cappello a cilindro, il suo mantello nero, le sue unghie lunghissime e arcuate. Marins portava “in tour” quell’essere diabolico ideato nel 1963, anno chiave della sua carriera e della sua filmografia. Il film della svolta, autoprodotto, è À meia noite levarei sua alma (A mezzanotte possiederò la tua anima, 1964), primo della serie con Zé: becchino, ateo, sadico che terrorizza gli abitanti di un paese povero e erra alla ricerca delle sue vittime. Una scenografia e un mondo marginale che torneranno in primo piano due anni dopo in Esta noite encarnerei no teu cadáver (Questa notte mi incarnerò nel tuo cadavere, 1966), opera “gemella” di À meia noite levarei sua alma, che ha come “prologo” le ultime inquadrature del film precedente e che Marins inonda di un realismo “pasoliniano” (le strade polverose con i bambini, le abitazioni povere…) e al tempo stesso di una visionarietà “buñueliana”. Inserendovi donne svestite, tarantole, scheletri, paludi, botole per intrappolare le sventurate…

 

 

 

Tra gli altri lavori di questo pioniere dell’horror brasiliano, indipendente e autodidatta, autore di testi grondanti sesso e morte, profanazione e sadismo, cannibalismo e allucinazioni che hanno scatenato le ire delle istituzioni e subìto, negli anni Sessanta della nascente dittatura brasiliana, enormi manipolazioni censorie, non si possono non ricordare O despertar da bestia/Ritual dos sadicos (Il risveglio della bestia/Rituale di sadici, 1969), con le sue allucinazioni lisergiche; Finis hominis – O fim do homem, (Finis hominis – La fine dell’uomo, 1971), con un realismo politico che fa ancora venire in mente Pasolini in un film dove Marins interpreta una specie di messia errante e miracoloso; Delirios de um anormal, (Allucinazioni di un folle, 1977), catalogo-laboratorio delle ossessioni di Marins, trionfo di torture esasperate (Salò torna a farsi spazio…), di carne da lacerare verso la “nuova carne spirito” dell’essere perfetto ancora e sempre bramato da José Mojica Marins/Zé do Caixão (perché da alcuni film il regista interpreta il doppio ruolo di se stesso e del suo alter ego). Fino a Encarnação do Demônio (Incarnazione del Demonio, 2008), finalmente portato a termine dopo tanti rinvii, folgorante danza macabra delle sue ossessioni (insetti, dettagli di mani e occhi, corpi femminili, resti umani…) contenente una scena, rigirata, che nel 1966 fu costretto a modificare (prendendosi così, a distanza di tempo, la rivincita su chi lo osteggiò). Ultimo lungometraggio di un autentico poeta della crudeltà.