Matteo Lanfranchi (Effetto Larsen): Stormo/Flusso, quando il corpo comincia a ragionare

La compagnia teatrale Effetto Larsen, fondata nel 2007 da Matteo Lanfranchi, negli anni si è trasformata diventando un collettivo di artisti che realizza progetti site-specific e partecipativi. Come la performance Stormo/Flusso che si tiene domenica 24 dalle 18.30 alle 23 (preceduta da un workshop sabato 23) nello spazio espositivo Assab One di Milano. Un progetto che coinvolge un gruppo di persone e che dimostra come, in assenza di un leader stabilito, la guida passa costantemente da un individuo all’altro fino a dissolversi in una volontà collettiva. Un esperimento di grande impatto che mutua le regole di movimento dagli uccelli, e che è insieme artistico, sociale e scientifico (nel 2015 durante una sessione di Stormo alcuni scienziati francesi hanno misurato l’armonia che il processo genera nei gruppi). Ne abbiamo parlato con Matteo Lanfranchi.

 

Alla base di tutto c’è la trasformazione della compagnia…

Sì, è una svolta che risale a inizio 2013, frutto di una grossa crisi che abbiamo attraversato. A fine 2012 – dopo anni di lavoro, partecipazioni a festival importanti e qualche premio – ho avuto segnali inequivocabili del fatto che il nostro nome girava ed eravamo apprezzati anche da realtà importanti, ma nonostante questo, non riuscivamo a decollare come compagnia. I nostri lavori sul palco sono sempre stati particolari, senza testo, di messa in discussione della grammatica teatrale e nonostante fossero apprezzati dal pubblico non giravano più di tanto. C’era di mezzo la crisi, ma c’entrava anche il fatto che è un tipo di lavoro che non trova spazio nella stagione di un teatro, almeno in Italia. Ho realizzato che quello che mi mancava di più era l’incontro con il pubblico. Il problema, molto semplice, è che se fai arti performative e non incontri il pubblico, il tuo lavoro non esiste. È stata una scelta sofferta – mi sono giocato metà compagnia – perché c’è stato un anno di transizione in cui nessuno ha guadagnato, però chi ha capito e condivideva con me questa urgenza è rimasto, e siamo ripartiti proprio da Stormo, progetto nato nel 2010 a Danae Festival anche se le sue radici affondano ancora prima, nel 2009 quando abbiamo vinto la Biennale Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo con uno spettacolo il cui prologo era già un primo accenno di Stormo.

 

Cercare luoghi altri è quindi stata anche una presa di posizione rispetto al mondo del teatro tradizionale.

Sì, la rivendico come una scelta profondamente politica. È stato dire no a un sistema che si collassa addosso. L’aspetto che più mi sconforta è la difficoltà a dialogare con organizzatori e produttori, quello teatrale è un sistema claustrofobico, basta vedere come molti festival si asssomigliano tra loro, invitano tutti gli stessi artisti… Spesso hai la sensazione che siano solo le compagnie a guardare i loro spettacoli, il pubblico non partecipa. Per me era diventato molto faticoso da sopportare.

 

Poi cosa è successo?

Questa apertura si è rivelata molto più strategica di quanto pensassi perché intorno a noi c’è stato subito grande interesse. E hanno cominciato ad arrivare tante persone che volevano prendere parte a Stormo. Siamo entrati in In Situ, un network europeo che si occupa di arte in spazi pubblici, e questo ci ha aperto le porte verso l’esterno, abbiamo cominciato a considerare l’Europa come campo d’azione.

Come è nato Stormo?

Da un’intuizione molto semplice che mi è venuta guardando uno stormo di storni (che in inglese viene definito “murmuration”, una parola che trovo bellissima). Mi sono chiesto come si poteva fare a realizzare la stessa cosa con le persone. Non avevo una risposta, quindi nel 2010 c’è stato quello che definirei il primo step, che si intitolava semplicemente Stormo ed era abbastanza coreografato, c’erano appuntamenti musicali e qualcuno che guidava in determinati momenti. Nel 2013 ho capito che non c’era più bisogno di un leader e il progetto è diventato Stormo rEvolution: il gruppo poteva organizzarsi in tempo reale, ma non sapevo come portare le persone a farlo. Ci ho messo un po’ di tempo per testare le dinamiche che ci hanno condotti al nuovo formato che si chiama Stormo/Flusso.

 

In cosa consiste?

Intanto la performance dura 4 ore e mezza e ci sono luci e suono dal vivo, realizzati rispettivamente da Roberto Rettura e Matteo Lo Valvo e da Stefano Mazzanti che improvvisano insieme al pubblico, il quale può entrare e uscire dalla sala quando vuole, può decidere se limitarsi a osservare o se entrare e partecipare. È previsto un numero massimo di persone, semplicemente perché altrimenti il progetto diventa illeggibile. Diciamo che Stormo era un progetto più strutturato, poi si è destratturato perché togliendo il leader è il gruppo che lo struttura in autonomia, adesso c’è un ulteriore passaggio perché può partecipare chiunque, anche chi non ha preso parte al workshop. È un lavoro di destrutturazione costante che, però, per assurdo sta costruendo un linguaggio.

 

Il grande successo del vostro lavoro deriva dal fatto che risponde a un bisogno?

Sicuramente. Sono convinto che l’ingrediente segreto è che tocca qualcosa che è semplicemente umano. Noi abbiamo quella capacità lì di ascoltarci, di metterci da parte per far emergere il gruppo, che si rivela molto confortante. Molte persone mi hanno confidato che con Stormo hanno provato le stesse sensazioni sperimentate durante la meditazione o una lezione di yoga o in momenti di grande pace perché la testa si quieta, non parla più ed è il corpo che comincia a ragionare quindi è uno stato che fa molto bene. Racconto sempre che le prime volte le persone venivano da me e mi dicevano: «Non so bene cosa stiamo facendo, ma mi piace tantissimo. Voglio rifarlo». Per me è stata una grande lezione, per la prima volta ho imparato – e continuo a farlo – da un progetto.

E la questione dell’intelligenza collettiva o del gruppo che sceglie?

È qualcosa di reale perché io non so cosa farà il gruppo, non è stabilito, noi li portiamo a una condizione di ascolto, diamo sicuramente delle basi durante il workshop, ma poi la performance è aperta a chiunque, anche a chi non ha partecipato al workshop.

 

Immagino sareste oggetto di studio…

Sì, ci tengono d’occhio, in particolare abbiamo un ottimo rapporto con il Politecnico di Milano, con Irina Suteu che adesso insegna al Naba interaction design ed è la ricercatrice più esperta del progetto, ha pubblicato articoli, ha parlato di noi in Canada. Nel 2014 abbiamo vinto un bando con la Diagonale Paris-Saclay che ci ha messo in collaborazione con l’Università e il nostro partner scientifico è Hugues Chaté, uno dei massimi esperti mondiali di movimenti di massa (si occupa di tutto, dalle formiche ai filamenti cellulari, alle mandrie di montoni). È riuscito a coinvolgere i ricercatori di Tolosa, un gruppo di computer scientists che stanno portando avanti un progetto per misurare le interazioni sociali in base all’orientamento del corpo con i quali abbiamo fatto una sessione di Stormo al Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano. Sono emersi spunti interessanti per approfondire questo tipo di ricerca, però procede tutto molto a rilento…

 

Anche Studio Azzurro è tra i vostri sostenitori.

Sì, ed è un grande onore anche perché nel 2009 quando abbiamo vinto la Biennale Giovani Artisti d’Europa e del Mediterraneo Paolo Rosa era nella giuria che ci ha nominati e porterò sempre nel cuore le parole che ci disse in quell’occasione. Li abbiamo ritrovati per caso, ma quando abbiamo spiegato loro il progetto si sono appassionati e ci hanno proposto di fare il video di Stormo. Ancora stento a crederci…