di Milena Costanzo con Milena Costanzo, Rossana Gay, Francesco Pennacchia, Savino Paparella

Milena Costanzo: Miserabili. Un’ironica atroce poesia

Come indagare la miseria umana oggi? Su questo tema sta lavorando Milena Costanzo a partire da I miserabili di Victor Hugo, romanzo storico-sociale pubblicato nel 1862, noto al grande pubblico per aver dato luogo a ben undici trasposizioni cinematografiche (compresi un film muto del 1925 e un film per la tv del 1978). Un’opera entrata di diritto nel nostro immaginario che la Costanzo scarnifica e frammenta per dar vita a Miserabili. Un’ironica atroce poesia, un lavoro di grande raffinatezza e poeticità. In scena con lei, Rossana Gay, Francesco Pennacchia e Gianluca Stetur (e il musicista Elia Baioni): «Quattro attori per ventidue personaggi nel carosello degli eventi di un romanzo che a tratti subisce la distorsione data dalla forza centrifuga del prendere gusto al gioco». Dopo tre residenze e il debutto a Castiglioncello e al Pim Off di Milano, la ricerca continua. Abbiamo incontrato Milena Costanzo.

 

 

 

Per il tuo nuovo lavoro parti da un romanzo corposo, una scelta coraggiosa…

Direi folle. Avevo appena finito la Trilogia della ragione su Anne Sexton, Emily Dickinson e Simone Weil e alcuni temi di quest’ultima mi hanno spinto a lavorare sui Miserabili, nel modo che mi contraddistingue, con pochi mezzi, ma cercando sempre di mettere insieme tanti aspetti. Prima di tutto lo spunto letterario o poetico di materiale che mi ha ispirato affinità o curiosità che poi cerco di legare a quello che stiamo vivendo adesso, a moti nostri che proviamo da donne o da uomini e che circolano nell’aria. Per quanto riguarda Miserabili non si tratta di uno spettacolo finito, ma di uno studio. Come hai visto non lo affronto in forma narrativa, cerco sempre di capire qual è il fulcro che tiene maggiormente insieme il lavoro per portarlo da una parte, ma si tratta di un primo studio un po’ frammentato, dove abbiamo raggiunto il cuore di alcune situazioni, c’è un gran lavoro di attori e all’interno è come un carosello di miserie sia belle sia brutte.

 

Lavori sui frammenti e pensando anche al titolo sembra davvero di vedere la versione poetica del romanzo.

Sì è così. Un po’ perché venivo dagli spettacoli su Emily Dickinson e Anne Sexton, un lavoro sui concentrati e sulle immagini, la poesia è questo, ti dà dei distillati di emozioni potenti, di immagini… E poi c’è questo elemento molto forte della musica riguardo al quale penso ci sia ancora un ampio margine di lavoro che può essere esplorato perché comunque ogni situazione, ogni personaggio hanno il loro ritmo e poi in scena con noi c’è Elia Baioni che suona il contrabbasso. Non è un caso che spesso i film su I miserabili sono musical perché il romanzo è pieno di canzoni, di filastrocche…

 

 

Un testo che dimostra di essere sempre molto attuale…

Abbiamo tenuto tutti i punti che sottolineano il fatto che non è cambiato niente, a partire dalla relazione uomo e donna. Senza giudicarlo, ma Victor Hugo da questo punto di vista era particolare. Per questo a legare tutte le situazioni ho voluto inserire sua figlia Adèle, morta pazza. Mi ha sempre colpito la sua storia, era una donna molto colta, componeva musica, scriveva ed era diversissima dalla sorella Léopoldine che, invece, era pienamente calata nell’epoca, si è sposata, ha fatto tutto quello che i genitori si aspettavano da lei. Adèle era una ribelle, seguiva idee molto femministe e quando si è innamorata del tenente Pinson è scappata di casa più che altro perché non voleva più avere contatti con il padre. Ripescata alle Barbados, è stata rinchiusa in manicomio dove è morta in età avanzata. A una lettura più approfondita si vede che Victor Hugo, bene o male, salva tutti i personaggi maschili, a partire da Jean Valjean che da miserabile morto di fame, accusato di furto, diventa sindaco, industriale, saggio, quasi santo, mentre i personaggi femminili muoiono, sono tutte disgraziate, tranne l’insopportabile Cosette che rappresenta l’ideale femminile di Hugo (e infatti si sposa con Marius, sorta di alter ego dello scrittore). Questo tipo di donna va bene, le altre muoiono: Éponine Thénardier, personaggio bellissimo, Fantine, la madre di Cosette….

 

Come ti spieghi che Hugo parli di “miserabili” quando lui non conosceva quel mondo?

L’ho sempre trovato paradossale e assurdo. Era uno dei pochi romanzieri molto famoso all’epoca, onorato, riverito e ben pagato. Era borghese, non sapeva nulla di miseria, certo ha una capacità di descrivere alcune situazioni che sono strazianti, era un bravo romanziere, ma ne I miserabili le donne sono le sartine oppure le donnine che devono essere dolci. In più c’è un giudizio da parte sua, lo si vede nel trattamento riservato a Fantine. In una delle prime scene che la riguardano si narra di uno scherzo che viene fatto a lei e alle sue amiche: gli amanti, degli studenti borghesi, le abbandonano durante un’uscita e non torneranno più, ma Fantine ha appena avuto una bambina da uno di loro e così cade in disgrazia. Al ristorante c’è una presa in giro continua di queste donne, viene detto che sono ignoranti, gli uomini parlano in latino facendo credere che sia spagnolo…. Questo maschile così irriverente nei confronti del femminile esiste ancora oggi.

 

Ci sono momenti tragici, ma si ride anche…

L’ho fatto volutamente. Questo spezzare con momenti o molto leggeri o molto ridanciani è una specie di Facebook, in cui passi da una disgrazia al ridere per una battuta… Stiamo diventando schizofrenici. È molto difficile indagare il tema della miseria che, per me, è una miseria umana. È quella di cui parla Simone Weil, ci siamo dentro tutti, solo che non lo vogliano vedere, lo ricacciamo via quando, invece, solo andando a fondo trovi una “saggezza divina”, come diceva lei. I nostri sono tempi che rifiutano la miseria perché è tutto intrattenimento, distrazione, non si ha quella forza di cui parla Simone Weil. Quando ti vengono proposte centomila immagini emotive al giorno, alla fine non ti emoziona più niente, non riesci a distinguere cosa ti tocca veramente da tutto il resto. Ed è ancora più difficile restituirlo perché a teatro facciamo finta, però mi interessa cercare quella cosa lì che, a volte un pochino emerge, ma poi mi rendo conto che non ha mai abbastanza forza per arrivare là dove vorrei io, senza cadere nel patetico. Perché a teatro se spingi troppo in quella direzione, il pubblico rifiuta. Non lo so… stiamo ancora cercando.

 

 

Dedichi sempre molto tempo ai progetti che ti interessano?

Di mio sono un po’ lenta, mi piace andare a fondo. Mi è capitato spesso di utilizzare questo metodo. Il primo studio è come fare una ripassata di tutto il materiale, poi, lasciando sedimentare, cominciano a uscire intenzioni più profonde.

 

Gli attori ci mettono del loro?

Lavoro molto sulle improvvisazioni all’inizio, nella prima fase, poi metto insieme il materiale, unendo le loro improvvisazioni, che chiaramente vengono dirette, dico su quali elementi improvvisare. Pian piano giriamo intorno a quello che ci interessa come materiale base e in questo caso l’ho unito ad alcuni brani tratti dal romanzo. Alcuni testi più letterari funzionano, ad esempio quello dell’uomo in mare che contiene anche un’eco dei giorni nostri, ci sono alchimie riuscite, elementi che tornano. Per questo ho inserito l’annegamento di Léopoldine Hugo. Anche perché l’annegamento è continuo dentro il romanzo, che sia l’acqua del mare, le fogne, perché quando uno cade, lentamente annega e quando comincia a diventare miserabile non riesce più a tornare su.

 

Foto di Paola Codeluppi

Pim Off