Riccardo Scamarcio: in Lo spietato sono disposto a tutto per conquistare la Milano da bere

In Lo spietato (su RaiPlay) Riccardo Scamarcio è Santo Russo. I suoi occhi, la sua faccia e anche il suo corpo attraversano più di 20 anni di storia di Milano e d’Italia. Un calabrese che arriva a Buccinasco e sceglie la malavita per scapparci. O meglio, per restarci e per scappare insieme. Santo e i suoi fratelli. C’è la Milano da bere. Gli Anni sono quelli. I rutilanti, edonistici 80. Santo è uno gangsta-yuppie che ha come idolo Gianni Agnelli e il suo Rolex sopra il polsino della camicia. Diventerà un diavolo in completo Giorgio Armani e vestaglia Gianni Versace. Con due donne. La moglie conterranea e verginale (Sara Serraiocco) e l’amante francese e pure artista (Marie-Ange Casta). Erano altri tempi e altre persone. “Nel film le due donne, ciascuna alla sua maniera, si ribellano: sono più moderne. L’artista francese è già più avanti di lui, per nascita diciamo. La moglie cerca altre vie di fuga”.

 

Lavorare sull’immaginario

Il film è liberamente ispirato al libro-inchiesta Manager calibro 9 di Luca Fazzo e Piero Colaprico che racconta la parabola criminale di Saverio Morabito. Un calabrese arrivato a Milano, cresciuto tra gli anni 70 e 80 nella malavita e nella Milano da bere. Poi pentito. I nomi non sono gli stessi. Lo sono gli ambienti, che abbiamo cercato di ricreare perfettamente. Raccontiamo la sua ascesa. Lui che vuole emanciparsi da una situazione di disagio sociale ed economica. In un periodo in cui Milano e la vita erano davvero da bere. Lui è disposto a tutto, anche a commettere crimini tremendi. Lo fa. Ma essere fuori dalla legalità ha un prezzo. E così comincia la sua discesa. Con Renato De Maria, il regista, non abbiamo voluto incontrare nessuno. Abbiamo lavorato sul nostro immaginario. Più Martin Scorsese e Quentin Tarantino che veri criminali d’epoca. Lo spietato è un film di genere e loro due sono i registi che amo di più per quanto riguarda i gangster movie. Poi qui viriamo anche sulla commedia, perché Renato ha quell’approccio, anche fumettistico. È il regista di Paz, sul grande Andrea Pazienza e i suoi personaggi.
Non assolviamo nessuno. Di me ho messo la faccia. L’attitudine. Un certo modo di muoversi e parlare. Di guardare e intendere… Sono cose miei o che conosco bene.

 

 

L’abito fa il personaggio

Per interpretare un personaggio così devi avere ben chiaro la sua psicologia: come vede il mondo, come pensa, come reagisce. Sono cose che non trovi nel copione. Il suo come guardare l’ho deciso io. Io ho costruito la sua architettura valoriale. Pensando anche a persone che ho incontrato, che si sono mosse sul limite e hanno questi valori. La ricostruzione d’epoca, in Lo spietato, è perfetta. Aiutano tantissimo anche i Ray-Ban, le giacche Armani, la vestaglia Gianni Versace. Abbiamo fatto un lavoro d’archivio pazzesco, presso le Maison. Abbiamo visionato migliaia di videoclip d’epoca. I costumi sono fondamentali: il nostro team ha girato l’Italia cercando collezionisti. In un film così i costumi fanno il 50 per cento del lavoro. L’abito fa l’attore, il personaggio. Erano altri tempi e altre persone.  Ma nel film le due donne, ciascuna alla sua maniera, si ribellano: sono più moderne.

 

 

La moda

Sul set ho un’attenzione pazzesca per dettagli come le cravatte, che poi nella vita non metto quasi mai. A volte però mi piace vestirmi come i miei personaggi. È capitato. Qui, mentre giravo, mi vestivo elegante come Santo. Negli Anni 80 del film nacque tutto quello che è la nostra vita di oggi. Gli abiti ma anche il designer. Le macchine. Penso alla moda come gusto, ricerca dei materiali, creatività, artigianalità, curiosità, combinazione di tradizione e innovazione. Anche spregiudicatezza, ma nel rispetto della nostra cultura. Come fai a non innamorarti di tutto questo? La qualità, l’estro. Come fai a non capire che è questo il tesoro italiano su cui dovresti puntare: la nostra cultura.