Ricordando l’inafferrabile Leonard Cohen

im2Ogni volta che penso a Leonard Cohen, invariabilmente, mando a memoria Suzanne. E va bene. O So Long, Marianne. E a come mi ci sono accoccolato dentro ogni volta che qualche storia finiva e a quell’ It’s time that we began che è un verso che da solo varrebbe il Nobel che non gli daranno mai più. E va bene. Perché Dylan, per dire, è tutto spiegabile. E Cohen praticamente mai, anche quando si limita a dire There ain’t no cure for love o Lover, lover, lover, lover, come back to me. Quante volte mi sono ritrovato a pensare che Cohen è (quasi) tutto l’amore che manca a Dylan, per esempio. E quante altre volte ho (abbiamo?) sorriso della loro visione superiore e di come ci hanno malmenato e preso per i fondelli quando hanno voluto. Tipo quando il Dylan più malmostoso se ne usciva in doppietta con i dischi di cover scazzate come Good As I’ve Been To You o World Gone Wrong, e noi a onorare zitti il  libro paga. O quando con il delirio mistico di Various Positions  Cohen sembrava rispondere in un ideale chiasmo di contrazione al Dylan di Infidels e quattro anni dopo rifilava alla Terra gli arrangiamenti sintetici di I’m Your Man. Ecco. Ogni volta che penso a Cohen mi incastro lì. Perché non ci sono Songs From A Room, New Skin For The Old Ceremony o Death Of A Ladies Man  che tengano. Non ci sono Our Lady Of Solitude, Chelsea Hotel No.2, Sisters of Mercy. C’è quel disco lì. Coi suoi synth da due lire, la title track che si butta via e sfuma quando non dovrebbe, i sei minuti in tre quarti da operetta di Take This Waltz e I want you I want you I want you on a chair with a dead magazine. E soprattutto l’enigmatica, incomprensibile, terribile, bellissima First We Take Manhattan, regalata l’anno prima (1987) a Jennifer Warnes per Famous Blue Raincoat e poi rifatta noncurante dai R.E.M. come B-Side del singolo di Drive e ulteriormente sottolineata in tutta la sua chiarissima inafferrabilità. E una cosa immensa come Everybody Knows, che tra il momento in cui ho battuto il titolo e quello in cui scrivo questa riga ho dovuto aspettare che smettesse di tremarmi la mano. Perché Dylan è tutto spiegabile, e Cohen praticamente mai.

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Eppure. Quando penso a Cohen, vedo argento e nero. Come la copertina di quel disco lì, quando lui aveva solo 54 anni e già sembrava il più vecchio di quei grandi vecchi che non devono dimostrare più un cazzo di niente a nessuno e infilava lì una Jazz Police che non ti tornava e interrompendo pure quella brutalmente sul coretto femminile che non facevi in tempo a chiederti dove era andata e ti arrivava in testa un macigno mascherato da corian79dolo come I Can’t Forget e il suo I Can’t Forget but I don’t remember what. Quando penso a Cohen penso anche che quel nero che impatta la copertina dell’ultimo You Want It Darker non è nient’altro che bianco accecante mascherato con riflessi d’argento. Il buio prima della luce. Il suo Blackstar. L’ultimo lungo Hallelujah. Non so dove sia, ma lo vedo. Voglio ringraziarlo di quegli oggetti che ci ha mandato, compresa la scimmia e il violino di compensato, e immaginarlo che prima va a prendersi Manhattan e poi va a prendersi Berlino. Qualsiasi cosa significhi.