Silvia Gribaudi: un’artista in perenne movimento

In scena lo scorso weekend al Teatro Leonardo di Milano con R.OSA – 10 esercizi per nuovi virtuosismi, spettacolo di cui ha curato coreografia e regia e di ritorno a Danae Festival con l’assolo A corpo libero (il 9/11), Silvia Gribaudi sta portando avanti da tempo un interessante (e rivoluzionario) discorso sul corpo attraverso la cifra dell’ironia e della comicità. I suoi spettacoli sono veri e propri inni alla libertà che affermano con forza la specificità di ogni individuo, contro l’omologazione sempre più presente e pressante. Non a caso è finalista quest’anno per l’insieme della sua opera al Premio Rete Critica. L’abbiamo incontrata.

 

Da dove deriva il tuo interesse per il corpo?

Nasco come danzatrice e, fin da piccola, ho frequentato questo ambiente che è ossessivo per il corpo. Fino a vent’anni avevo forme legate a quella che è la norma per un danzatore, anche se ho sempre avuto il seno un po’ prosperoso, quindi mi sono spesso chiesta cosa sarebbe successo se avessi lasciato libere queste parti del mio corpo, anziché fasciarle per creare linee più compatte. Poi verso i trent’anni ho avuto la fortuna – adesso dico così, ma all’epoca non ero contenta – di veder cambiare la mia fisicità e allora mi sono interrogata in quanto autrice su come usare queste parti e scoprire come si potevano muovere. Da qui nasce, nel 2009, la performance A corpo libero che ha vinto il Premio per la giovane danza d’autore. È una performance molto ironica, della durata di 15 minuti, sulle note della Traviata dove mi spoglio e, in maniera molto libera, faccio danzare le cosiddette “ali di pipistrello” ovvero le parti grasse sotto le braccia creando una vera e propria partitura fisica.


Uno spettacolo che ancora porti in giro…

Sì, sia in Italia sia all’estero. Da questo punto di vista ha del miracoloso: un piccolo seme che continua a funzionare nei luoghi più disparati. Significa che nel cuore ha un senso così profondo che può essere fatto ovunque e per me questa è una grande libertà. La tecnica dipende dal luogo in cui sei e, quindi, si adatta alle varie situazioni, ma il cuore del lavoro è sempre quello e tocca dall’intellettuale alla persona per strada. Qui sta il miracolo, nessun’altra performance che ho fatto finora è stata così trasversale. Mi ha dato grossa soddisfazione.

 

Che tipo di reazioni suscita?

Tutti hanno apprezzato la grande libertà, hanno parlato di manifesto anticonvenzionale della danza… Mi sono, quindi, resa conto che aveva senso per me autrice e danzatrice, ma che attraverso un’autorialità finalmente riuscivo a scrivere qualcosa che vedevo corrispondere anche a persone che non per forza erano nell’ambiente della danza. Ho capito che c’era una necessità – condivisa o non condivisa non mi importa – rispetto al mondo dell’arte e mi ha interessato dal punto di vista sociale vedere come le persone reagivano. Per questo mi sono esibita negli ambienti più diversi: per strada, al Fringe Festival, al Palais de Tokyo di Parigi e anche al mercato del pesce. Mi interessava capire che impatto ha il corpo sulla società e da lì è nata questa necessità di continuare. Nel 2015 ho fatto dei laboratori per un progetto che doveva partire, e poi si è arenato, con Roberta Torre dal titolo Elogio della leggerezza, che mi ha permesso di incontrare Claudia Marsicano con cui è nato R.OSA. Fino ad allora non avevo ancora trovato una performer capace di tradurre quello che avevo nel cuore. Claudia è perfetta, perché mette a disposizione la sua corporeità ed è capace, da attrice, di usarla al meglio, quindi è un’interprete ideale con cui crescere.

 

Di questi tempi mettere in scena un corpo che non rientra nei canoni classici è una scelta quasi rivoluzionaria.

È stato una necessità farlo, e continua a esserlo, perché è uno spettacolo che smuove. Per quanto si parli di accettazione non penso ci sia rispetto alla corporeità che supera dei limiti rispetto a quello che noi riteniamo un corpo perfetto e tante persone lo vivono come un dramma. Quando abbiamo fatto lo spettacolo con gli adolescenti è stato molto interessante vedere le loro reazioni e notare come subito si crei un’empatia. Ci sono stati incontri preparatori nelle scuole, in cui si parlava semplicemente di osare essere se stessi per tirare fuori il proprio talento. Dal momento che una persona ha una fisicità apparentemente pesante ci si aspetta non sia capace di fare nulla. Mi sorprendo sempre quando il pubblico applaude – e succede spesso – quando Claudia salta. Significa che arriviamo al punto di pensare che una persona perché è grossa non può saltare o, invece, stiamo applaudendo perché è bellissimo il gesto che sta facendo? Per questo chiedo al pubblico di mandarmi le osservazioni, mi interessa conoscere le reazioni, sapere se vedere questi spettacoli trasmette libertà.

Il messaggio che arriva è molto potente.

Praticamente in tutti i lavori che faccio, centrando sempre di più l’obiettivo, il messaggio è lo stesso. A me sta veramente a cuore spaccare il muro che abbiamo dentro ognuno di noi, perché la vita va vissuta fino in fondo e il “fino in fondo” sta nell’essere a contatto con la nostra natura. Mi preoccupa molto vedere persone, vale anche per me, che si limitano nella loro realizzazione perché pensano di non poter fare delle cose perché nella nostra cultura è stato trasmesso che non è possibile.

 

Il discorso sotteso è che l’accettazione dell’altro passa prima di tutto per l’accettazione di sé.

Assolutamente, è un punto fondamentale. Noi come interpreti attiriamo meno l’attenzione, c’è bisogno di una persona come Claudia che ha una potenza di immagine molto forte per, finalmente, parlarne. È una questione che mi ha fatto anche riflettere perché bisogna poi riuscire a mettere altri tasselli e non lasciare che le persone siano attratte solo dall’immagine, ma continuare ad approfondire quello che è sempre il solito punto, ovvero che le tue forme sono perfette così come sono.

 

Un discorso sempre di grande attualità…

Con i problemi che ci sono oggi nel mondo mi chiedo se ancora devo parlare di questo, ma ho notato che ha senso perché tutti vivono una castrazione di se stessi. Quindi, è in ballo proprio l’accettazione di se stessi e questo è un profondo lavoro che non finisce mai, così come destrutturare la visione che abbiamo di noi rispetto a quello che desideriamo realizzare. Si tratta di capire se ci mettiamo un limite nella realizzazione perché pensiamo non sia possibile a causa di qualche preconcetto. Sono invece convinta che dipende sempre dalla determinazione di una persona. Ovviamente deve partire da una necessità e R.OSA nasce da una necessità prima di tutto mia, poi condivisa da Claudia, che ha accettato di mettersi in gioco con la sua esperienza professionale.

 

Nei tuoi spettacoli ti piace coinvolgere il pubblico.

Banalmente ho fatto villaggio turistico quando avevo vent’anni… Mi sono chiesta come trasportare il valore dell’inclusione in un altro contesto. In parte è anche una provocazione perché mi divertiva usare un espediente così semplice dentro a un cartellone. Però mi interessa davvero, sia sottoforma di animazione, come in R.OSA, o anche solo chiedendo al pubblico come sta. E aspettare la risposta. Per me è fondamentale rompere la quarta parete, poi ogni volta mi invento come farlo, ma mi diverte destabilizzare, creare un po’ di paura. Non è mai per creare imbarazzo, anzi chi partecipa poi sta bene, forse rimane con un po’ di rimpianto chi non lo fa. Osare significa mettersi in azione, poi si ha sempre la scelta di fare o non fare, però si vive un’emozione, quindi è molto interessante che ognuno sia coinvolto nell’azione di osare.

 

Anche l’ironia è un tratto ricorrente.

Comicità e ironia sono un mezzo per me fondamentale di trasmettere in maniera leggera alcune emozioni. Soprattutto nell’ambiente della danza contemporanea questa comicità viscerale, molto diretta, può dare fastidio, ma anche in questo oso. Una volta non lo facevo, mi dicevo che dovevo essere più delicata, crescendo questa natura la posso raffinare, ma devo essere sincera nella mia convinzione stilistica. A me serve per poter dire determinate cose e aiutare il pubblico a stare dentro a quello che mostro senza che diventi un dramma. Questa è la mia chiave. L’ironia è un’arte sublime, capace di trasformare il tragicomico, il dramma in qualcosa di meraviglioso e positivo, quindi è un’arte misteriosa e al pubblico penso faccia bene. Sto imparando ad accettarlo perché, arrivando dalla danza contemporanea, ho dovuto io stessa destrutturarmi un po’ piano piano e vedere che questa è una natura che mi appartiene, mi piace e mi entusiasma.

 

I corpi al centro del tuo interesse sono anche quelli delle over 60 che seguono i tuoi laboratori…

Certo. Siamo partiti nel 2011 dal progetto sull’età (che ha portato allo spettacolo What Age Are You Acting?, ndr.), inizialmente solo con donne, nei vari festival italiani, poi l’ho aperto a uomini e adesso anche a età diverse, quindi ora è molto più ampio e confluirà nel progetto Oggi è il mio giorno che prevede delle performance finali in cui le persone decidono, e possono cambiare idea fino all’ultimo, se esibirsi o meno. Sono particolarmente legata a “Over 60” perché ha creato dei gruppi di donne che mi seguono e, nel 2018-20, faremo dei raduni nazionali a Castiglioncello e Mondaino. Ci sarà una troupe a filmare gli incontri perché Lab80 produrrà un docufilm: oltre al laboratorio, infatti, sono bellissime le dinamiche che si creano tra queste donne.

 

Cosa puoi dirci di Graces, il tuo nuovo progetto?

È incentrato sulle Tre Grazie e sul concetto di bellezza classica legata al Canova. Continuo il discorso del virtuosismo presente anche in R.OSA e che per me è una questione fondamentale nella danza. Cos’è? Un braccio che vibra? Tanti giri? Io nella mia vita, anche mentre cammino per strada, mi sento un virtuoso o mi sento uno zero? Quindi ci lavorerò con tre danzatori, e io sarò in scena con loro a pormi delle domande su virtuosismo e bellezza. Debutteremo probabilmente nel 2019. Si tratta di un nuovo viaggio e sono curiosa di mettermi in discussione, questa volta con dei danzatori e non con degli attori. Diciamo che voglio continuare a osare per capirmi sempre più, non stare sul comodo, ma spostarmi oltre, quindi lavorare anche con corpi molto lunghi, flessibili e vedere cosa io sono in grado di cogliere e cosa possiamo insieme cogliere nel movimento.

 

Foto di Luca Giabardo, Manuel Cafini

www.silviagribaudi.com