Stanley Donen e le malinconie dello spazio

Lo spazio svelato

“Non sono un bravo attore, non so parlare senza l’ambiente adatto”. Dice così Gene Kelly in una scena esemplare di Cantando sotto la pioggia dove il senso del cinema di Stanley Donen si impone nel suo essere corpo alla continua ricerca di uno spazio. Qui l’attore-simbolo del musical deve trascinare la ragazza amata nel chiuso di un teatro di posa per poter esprimere, cantando, i suoi veri sentimenti. Come a dire che solo lo spazio bidimensionale del set può mettere in rilievo la realtà con i suoi contorni imprevedibili, solo i riflettori possono illuminare di ‘vero’ le figure che il cinema trasforma in simboli. Potrebbe essere riassunta in questo modo la ricca filmografia del regista coreografo che ha fatto dello spazio un personaggio sempre presente, osservatore silenzioso ma attento, continuamente re-inventato dallo sguardo di chi si diverte a ribaltare la realtà della finzione e a confonderla con quella del cinema. Perché la preoccupazione prima di Donen sembra essere quella di scavalcare le pareti di cartone, praticare in esse spazi sufficienti a mostrare che il cinema altro non è se non specchio di se stesso, sovrapposizione infinita di sguardi, in una danza di immagini che attraversa i generi e le definizioni, dove lo spazio si moltiplica negli spazi della sovrimpressione e della scomposizione (pensiamo all’inizio di É sempre bel tempo e alla reale sovrimpressione dell’immagine dei protagonisti con quella di diversi angoli della città) e dove il tempo smette di aderire alla superficie delle immagini, si slega dalla sua dimensione di linearità e dimentica il divenire. Il set, allora, diventa l’unico luogo entro cui poter rappresentare la vita, teatro dentro/oltre il teatro, in cui lo spettatore è invitato ad agire, a penetrare i meccanismi del cinema e a superare le inibizioni del semplice spettacolo. La macchina da presa di Donen si serve dell’artificio per lavorare di trasparenze. Impone una scrittura modulata su un disegno circolare, per calpestare continuamente i propri passi, ripercorrere le strade già note, tornare a danzare nei vicoli illuminati dalla luce bluastra di malinconici lampioni notturni. Scene di cartapesta che ritornano di film in film, che diventano segni riconoscibili e si impregnano di memoria. I vicoli della ipnotica danza sotto la pioggia sono gli stessi di É sempre bel tempo, dove i tre protagonisti erano, però, alle prese con i bidoni della spazzatura (in questo film assistiamo alla moltiplicazione dello spazio rappresentabile attraverso la scomposizione dell’inquadratura in tre parti); la New York scintillante di Tre ragazze a Broadway sembra avere le braccia spalancate e accoglienti di Un giorno a New York, altro testo imprescindibile nella filmografia di Donen, che contiene, nel finale, l’inizio di un altro film in cui altri ballerini, in mirabili evoluzioni, saranno impegnati nel loro compito di dare corpo allo spazio che li ospita. Film della spazialità per eccellenza, dove i fondali dipinti vengono abbandonati quasi completamente, alla conquista della vera città, in un’operazione di ennesimo capovolgimento di realtà e finzione. E forse non è un caso che questo film, che si addentra nella tridimensionalità di uno spazio reale, appaia poi tutto sospeso in un tempo senza profondità, privo di passato e di futuro, dove lo sguardo resta prigioniero di un assoluto presente, catturato e cristallizzato dalla danza ininterrotta dei protagonisti nella loro corsa contro il tempo delle 24 ore di libertà.

Un giorno a New York

“Ti ricordi come ballava Gene Kelly su questa stessa riva?” dice Audrey Hepburn in Sciarada, quando già la stagione del musical era stata superata in favore della commedia brillante e Parigi aveva preso il posto della metropoli americana. Eppure anche qui lo spazio assume ruolo di protagonista, dove il rincorrersi dei personaggi attorno ad un centro comune vuole essere un tardo omaggio, che sa di rimpianto, per quella danza trascinante che interrompeva la narrazione e introduceva schegge di attesa nel tessuto sfilacciato e affascinante della vicenda raccontata (non si dimentichi che Sciarada, nella sua ambientazione parigina, era stato a sua volta preceduto da un altro film, Cenerentola a Parigi, non a caso un musical, dove, però, la città francese era stata ricostruita in studio). Cinema che riflette su se stesso, dunque, che sembra spingersi, con mille aperture, verso l’esterno – al di là di quei set così minuziosamente messi in scena – affacciato su altrettante finestre, ennesimi schermi cinematografici, che, come specchi, ci consegnano l’immagine rovesciata del film cui stiamo assistendo. L’esempio più eloquente in questo senso lo troviamo, ancora una volta, in Cantando sotto la pioggia, dove il bianconero del film in lavorazione si sovrappone alle immagini senza veli del set, che, a sua volta, si espande oltre i confini della finzione cinematografica. Qui lo spazio subisce continue infrazioni, i fondali, fatti scorrere dietro i corpi in movimento, sono percorsi da squarci improvvisi, il fuori campo esce allo scoperto, addirittura portato in primo piano, svelando uno spazio che il cinema vuole invece tenere celato. E schermi, anzi, fondali su cui si proietta uno spazio, sono, ugualmente, quelli che si lasciano scorgere oltre i finestrini delle auto in corsa (ma anche dietro le spalle dei protagonisti di Sciarada a bordo del battello sulla Senna). Ne è pieno il cinema di Donen, affascinato da questo magico prodigio che consente la messa in rilievo dei corpi in uno spazio bidimensionale. Spazio della realtà contenuta nello spazio dell’artificio, in un gioco senza fine di scatole cinesi.

Lo spazio celato

Ancora sovrimpressioni in Due per la strada, film che si offre ad una doppia visione perché doppia sembra essere la superficie impressionata da figure, corpi, ombre che vivono nel fuori campo. Ancora, si dirà, uno spazio esterno che invade lo schermo e si impone allo sguardo, lasciandosi solo pallidamente ritrarre in forma indiretta. Ma questa volta la situazione si è capovolta e quello che sembra lo svelamento ulteriore di uno spazio non è altro che l’estremo tentativo di tenerlo al di fuori del processo diegetico, di spingerlo al di là della visione, nasconderlo, infine, per circoscrivere il più possibile l’ambiente messo a disposizione dei due personaggi. Donen sembra volersi fare beffe del genere che affronta, usarlo come materia prima per una sua scomposizione sostanziale che prende le distanze dalle classiche convenzioni. Un film on the road in cui prevale forte l’esigenza di tenere lontano dall’obiettivo della macchina da presa proprio quella stessa strada che si offre come pretesto dell’intero film. Lo scopo di Donen, in questo caso, sembra essere quello di confinare i due protagonisti entro uno spazio sempre più ristretto, chiuderli dentro l’inquadratura, a sua volta tagliata a metà dalle continue incursioni di quel fuori campo che, in realtà, viene lentamente a definirsi come un non luogo in quanto proiezione astratta dei fondali semoventi del vecchio musical. Ombre che si accavallano all’immagine e offuscano il primo piano, sottraggono spazio allo spazio già negato.

Due per la strada

 

La leggerezza del cinema musicale, d’altronde, è palpabile anche in questo film, mantenuta intatta grazie al funambolismo del montaggio che fa del film un’opera rapsodica, corpo portato esso stesso a danzare tra il presente e il passato della narrazione, costruita come una frenetica danza tra i luoghi diversi percorsi con la memoria. Nel musical, inoltre, i numeri cantati e ballati sono spesso inseriti in una dimensione che non è azzardato definire straniata, priva, cioè, di quelle coordinate spazio-temporali che rendono possibile il racconto. Il tempo, in questi momenti, sembra volersi tradurre in spazio, concretizzandosi e assumendo la forma della dimensione praticabile. Questo il senso che possiamo scorgere anche in Due per la strada dove non esiste uno spazio in senso tradizionale, ma molteplicità di luoghi rivisitati attraverso il ripensamento del tempo. Sugli alberghi, i ristoranti, i giardini, le spiagge percorse dai protagonisti scorre uno sguardo superficiale e analitico insieme, che sembra scivolare sull’evidenza per spingersi oltre, penetrando il senso nascosto di cui questi luoghi vogliono farsi portavoce. Tende a chiudersi in un respiro più corto anche la raffigurazione dello spazio di Indiscreto. Anche qui si assiste ad un procedimento di occultamento dell’ambiente che circonda i personaggi. Lo sguardo di Donen si spinge in primi piani estremi che occupano lo schermo e, ancora una volta, ingigantiscono la porzione del fuori campo. Le azioni di Ingrid Bergman e Cary Grant sembrano circoscritte tra i limiti dell’inquadratura come se i loro corpi di attori sentissero sulle proprie membra i margini del quadro, come se i loro movimenti fossero bloccati dalle finestre, dalle porte, dagli ingressi e dalle stanze di un appartamento che si oppongono alla rivelazione di uno spazio mostrato solo per frammenti, all’interno di brevi nuclei narrativi. In apertura e in chiusura di ciascun segmento un movimento dello sguardo che avanza e che retrocede. I brevi episodi di cui si compone il film sembrano, così, volersi caratterizzare a seconda dell’ambiente messo in scena, i gesti prendono la forma dello spazio entro cui sono inseriti, persino i dialoghi vogliono adeguarsi al contesto, modulandosi di volta in volta in silenzi eloquenti di uno stato d’animo, scambi secchi di battute veloci, conversazioni generose o soffocate nell’imbarazzo, che si consumano rispettivamente nell’ambiente formale dell’appartamento, nel più disteso e ampio orizzonte di una terrazza oppure entro gli stretti confini di un’ascensore. E ogni volta, a dettare le regole e i limiti dell’azione, una precisa dialettica di avvicinamento/allontanamento della macchina da presa, che svela lo spazio per poi nasconderlo, quasi a volerlo negare nel momento stesso in cui è stato mostrato.

Lo spazio del ricordo

Il viaggio di Audrey Hepburn e Albert Finney in Due per la strada è occasione per avviare una perlustrazione nello spazio della memoria, quella privata dei due protagonisti, che acquista forma nel momento in cui si fa immagine e si svela alla visione. Percorso tutto mentale che, nella sua astrazione, può moltiplicare le traiettorie fino a comporre una rete di eventi che dal passato si riaffacciano nell’istante della loro evocazione. Rcordare, per Donen, implica sempre una certa dose di rimpianto, sorta di malinconica digressione verso il tempo perduto, fuori campo della vita nel quale lo sguardo sembra volersi perdere, abbandonandosi nelle larghe maglie del tempo. Donen allinea, l’uno accanto all’altro, gli spazi della messa in scena, che diventano teatro della rievocazione del passato. A questi luoghi viene tacitamente affidato il compito di fare ordine nel flusso caotico della memoria, e nel riproporsi apparentemente disordinato di flashback che si concedono al ricordo. Sono gli ambienti a rendere riconoscibile il tempo che si vuole mostrare, la luce e i colori a prestarsi come ballerini in questa morbida danza su cui si costruisce il film. E se la raffigurazione del presente ci appare sempre velata (per l’intrusione di ombre, vetri o pioggia) è perché sul presente, sul suo spazio, preme con insistenza il desiderio di riemergere del passato.

Ha un inizio sommesso e mesto, invece, Indiscreto, film tutto giocato su un senso di accelerazione del tempo, dei ritmi, delle azioni dei personaggi coinvolti, dove la frenesia, lentamente conquistata, si traduce in un percorso lucidamente accompagnato da una progressiva conquista degli spazi. Metafora di questo passaggio è l’appartamento londinese dove vive Ingrid Bergman. Questo, da oggetto spaziale quasi estraneo all’azione, si fa corpo sempre più presente, aderendo alla materia del film fino a diventare un personaggio e quindi ad importsi come parte attiva e integrante del percorso diegetico. La prima scena ce ne dà un’immagine di desolato abbandono, con i mobili stancamente ricoperti di teli bianchi, come a testimonianza di un tempo passato che si è posato su quelle superfici senza più essere rimosso. Immagine di una memoria che non vuole tradursi in azione ma restare in forma di icona nella sua immobilità. Anche i dialoghi delle prime scene fanno costante riferimento ad una situazione di triste abbandono cui quell’appartamento sembra voler fare accenno; da tale costrizione, però, i personaggi si liberano abilmente conquistando lo spazio circostante, abitandolo in ogni segmento e sottraendolo alla tristezza di un tempo dimenticato. Anche in un film senza tempo come Un giorno a New York c’è spazio per il ricordo che, come sempre, riemerge nel riferimento ad un luogo. Medowille, il piccolo paese di origine di Gaby-Gene Kelly, riporta in superficie i particolari di un passato che, in linea con il carattere di immediatezza del testo, non ha lasciato traccia visibile. Lo spazio in questione è sottratto allo sguardo, non entra a far parte dei luoghi attraversati ma si lascia splendidamente immaginare, plasmato nella danza e riflesso negli occhi incantati del ballerino. Questo suo sguardo verso un altrove non visto ha la forza e la pregnanza di uno spazio minuziosamente indagato, percorso e ricordato nei suoi particolari più segreti. A volte, però, la memoria vuole essere rincorsa nei luoghi cui sono legati gli eventi del passato. Accade così in É sempre bel tempo dove il ricordo di una stagione felice si è come depositato nel piccolo caffè che ha ospitato l’ultimo ballo dei tre protagonisti, prima che ritornassero alle loro vite di sempre, interrotte dalla guerra. Il ritorno, dopo dieci anni, su quegli stessi luoghi va letto come desiderio di liberare il passato che appare incrostato su quei muri, rivisitarne l’atmosfera lieta per riviverne la spensieratezza nella ripetizione di quei canti e quelle danze: unico modo che il cinema conosce per sottrarsi alla spinta della malinconica rievocazione. Ma è bello pensare al cinema di Stanley Donen come luogo dove si rispecchia una più ampia memoria del cinema che chiama in causa la memoria stessa dello spettatore. Ne nasce un continuo gioco di riferimenti, richiami e citazioni che fanno dell’opera intera dell’autore una sorta di lungo diario di viaggio. Come appunti, i singoli film vivono vita autonoma e indipendente, disegnano percorsi propri e si sviluppano secondo distinte geometrie; eppure, ognuno di essi nasconde tra le sue pieghe un’impronta del passato, come un omaggio al corpo centrale di appartenenza, un impercettibile cenno ai luoghi già filmati che tradiscono velati e sottili segni di rimpianto.