Stefano Tevini, il wrestler della scrittura

È un wrestler e lavora come impiegato commerciale, dopo essere stato un bibliotecario e tante altre cose. Soprattutto, è uno scrittore: Stefano Tevini, 37enne bresciano con una laurea in Filosofia nel cassetto, si è cimentato con la letteratura durante l’appagante esperienza collettiva di Anonima Scrittori – progetto cresciuto in principio di millennio attorno al “fasciocomunista” Antonio Pennacchi, il quale avrebbe poi vinto il Premio Strega 2010 con Canale Mussolini – e non s’è più fermato. Si è messo alla prova nella forma breve del racconto, partecipando ad antologie quali Storie di (r)esistenza e Il bit dell’avvenire; quindi ha cambiato marcia e formato, realizzando da solo Vampiro tossico (2013) e Testamento di una maschera (2015), romanzi editi da La Ponga. Dalla fine del 2017, Tevini, che si occupa anche di fumetti per “Nocturno”, è in libreria con due opere che alimentano il doppio percorso intrapreso: Riassunto delle puntate precedenti (Ed. Augh!, pp. 108, 10 euro) è infatti una raccolta di racconti distopici, eterogenea nei temi, ma assolutamente coesa nella forma, che riprende scritti realizzati in momenti diversi; Storia di cento occhi (Safarà Editore, pp. 128, 12 euro) è invece un romanzo che impasta elementi distopici di fondo e fantascienza più classica (ma anche normalità metropolitana), esplorando “le inquietanti possibilità del futuro che incombe oltre la soglia della quotidianità”. Reduce dal Salone del Libro di Torino, dove ha presentato il romanzo, Stefano ci parla di passioni e progetti. D’altronde è portatore felice di una cultura vivace, coltivata con letture e visioni onnivore, diffusa dentro un fisico massiccio che è stato temprato da un centinaio di incontri nel circuito del wrestling indipendente nazionale. Il suo sguardo è mite, ma non azzardatevi a dirgli che lo sport che pratica ha fama di “baraccone reazionario”, perché al riguardo mostra un certo nervosismo. Si difende benissimo pure con le parole: “La reazionarietà si materializza tutta nell’occhio di chi guarda. Semmai il problema vero è che la sinistra italiana non ha fatto mai davvero pace con la cultura pop. Io penso semplicemente che il wrestling sia un concentrato di emozioni e di tensione, come la boxe o altre discipline da ring. Intendiamoci; il wrestler non è Spinoza, e nemmeno gli si chiede di esserlo, bensì di mettere in atto una forma di comunicazione elementare che sappia parlare alla pancia dello spettatore”.

 

Stefano, sembra di capire che ci sia un fil rouge ideale che lega insieme ring e penna, almeno per te. È così?

Se, come credo, il wrestling è narrazione ed è anche epica, allora strutturare un match significa imparare una lezione su ciò che è immediato e ciò che invece richiede maggiori sforzi di comprensione da parte del pubblico. Un processo che vale certamente anche per la scrittura. Quindi, per rispondere alla tua domanda, scrittura e combattimento sono collegate.

 

Storia di cento occhi ci racconta un futuro vicino, già prefigurato da Wim Wenders in un film imperfetto e forse poco capito come Crimini invisibili. Ma tu introduci elementi ulteriori, non tanto sotto il profilo dell’etica sottesa al controllo messo in atto da una macchina che è comunque impostata dall’uomo (come faceva il regista tedesco), quanto piuttosto all’organismo (vivente e pensante) che deve “selezionare” il materiale che raccoglie. E poi ti muovi in diverse direzioni…

È una vicenda dalla valenza sociale e politica, come d’altronde sempre accade in ciò che scrivo. Muove dalla paranoia per la sicurezza che pervade la nostra società: racconta di un organismo pensante – innesto di software organico e hardware sperimentale – che è in grado di controllare ogni angolo di una città. Il tema della sicurezza (il suo abuso, la sua urlata spettacolarizzazione), ci accompagna purtroppo da molto tempo. Io avevo già scritto una novella in materia, che tuttavia aveva il limite di essere statica. Ecco: per il romanzo sono partito da un’idea già trattata, ma avendo l’obbiettivo di conferirgli una forma dinamica.

 

Ti piace colpire duro…

Sì, e anche a fondo. Non mi trattengo, in genere, dal premere il dito sui nervi scoperti della società,
configurando scenari che sono allucinati, distorti, a volte anche parecchio dolorosi.

 

I personaggi che metti in scena, in effetti, fanno scelte sovente estreme, ma sempre in libertà…

Ritengo che ciascuno debba essere libero di scegliere e anche di sbagliare, come vuole. E, di sicuro, ciascuno deve poter scegliere in totale libertà il proprio intrattenimento.

 

A proposito di intrattenimento, che valore assegni alla letteratura?

È tuttora un’arma efficacissima. Non per caso, i regimi (compresi quelli attuali, più o meno nascosti) mirano a controllare la letteratura, e l’arte in generale: perché in questo modo puntano a disinnescare ogni opposizione. E di conseguenza, tutte le culture di opposizione si creano la loro narrativa.

 

La tua ispirazione nasce dall’osservazione attenta della realtà, che poi prende varie strade. In questo momento su cosa è concentrata?

Sono parecchie le cose che stanno prendendo forma, alcune già in circuito da tempo, altre più
recenti; non ne parlo però volentieri, fino a quando non hanno imboccato una direzione precisa.
Tra queste ultime, ne indico dunque tre. La prima è una web serie sul mondo del wrestling nazionale, che non è stato mai raccontato in maniera adeguata. Sono poi piuttosto avanti con un romanzo di formazione “al contrario”, che ha pure un titolo provvisorio; è una distopia anti-liberista, che parte dalla considerazione di come la società stia prendendo una piega iper liberista: mi diverto allora a mettere alla berlina un mondo in cui puoi vendere tutto. Il terzo progetto è una sfida difficile: vorrei mettere mano a un racconto che rilegga il Nord Est in cui vivo, senza baricentro e in crisi di identità, con l’ambizione di scrivere una sorta di Gattopardo proletario, che sia un po’ la fotografia dell’Italia di questi anni.