Tanya Beyeler (El Conde de Torrefiel): Guerrilla e i conflitti del nostro tempo

Arriva finalmente anche a Milano, al Teatro dell’Arte (in collaborazione con Danae Festival e ZONA K) il 14 e 15 settembre alle 20, la compagnia catalana El Conde de Torrefiel, fondata nel 2010 da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert, con lo spettacolo/performance Guerrilla composto da tre momenti: una conferenza, una classe di Thai-Chi e una sessione di musica elettronica. In tour da un anno e mezzo con grande successo in tutta Europa, Guerrilla prevede, già in fase di drammaturgia, il coinvolgimento di un gruppo di abitanti dei vari luoghi toccati, chiamati a raccontare le loro storie. Il tema di partenza è il conflitto. A Milano 80 persone hanno risposto all’appello per vivere quella che è a tutti gli effetti un’esperienza. Non solo per chi è in scena, ma anche per chi guarda. Ne abbiamo parlato con Tanya Beyeler, drammaturga e regista insieme a Pablo Gisbert dello spettacolo.

Fin dal titolo il concetto di “guerrilla” porta in sé un caratterere di sorpresa, di improvvisazione, di non convenzionale…

Le prove, però, ci sono. L’idea di Guerrilla è più quella di un gruppo di persone che, in un momento dato, si riuniscono e combinano qualcosa. È qualcosa di più poetico… Abbiamo intitolato così lo spettacolo perché la guerrilla è sicuramente una forma non organizzata di attacco, però è un po’ paradossale perché noi parliamo anche dell’estrema attività e dell’estrema passività nel senso che dentro ci succedono tante cose, sentiamo tante cose, pensiamo tante cose, ma poi non si può o non si riesce sempre a portarle all’azione.

 

In qualche modo la vostra è una creazione collettiva che coinvolge le persone in scena in maniera profonda.

Sì, ci tuteliamo a livello dello spettacolo, ma è veramente una guerrilla nel senso che si inizia sempre da capo ogni volta che mettiamo in scena la pièce perché devi riuscire a creare il gruppo, la fiducia da parte loro, sono da soli in scena… In questo senso è tutto molto improvvisato o comunque nuovo, fresco. A livello di testo, per quanto riguarda la prima parte, ovvero la conferenza, in ogni posto ci sono tre storie biografiche di tre persone che fanno parte del gruppo della conferenza. Quando le persone si iscrivono, mandiamo una domanda relativa a conflitti del XX secolo vissuti o da loro o dai loro familiari – quindi possono essere i nonni, i bisnonni, gli zii, la Seconda guerra mondiale, la guerra dei Balcani, la guerra del Golfo e chi più ne ha più ne metta. Loro scrivono e noi scegliamo tre storie, poi faccio uno Skype con loro per approfondire la storia. Un po’ dirigo io la conversazione perché ho bisogno di determinati dati e, dopo, riscriviamo questo testo in accordo con il tempo che si incastona nella drammaturgia.

 

Quali sono le storie per Milano?

Abbiamo una storia sulla Seconda guerra mondiale relativa alla battaglia di Russia, un’altra sugli anni di piombo e una sul bombardamento della città.

 

Come scegliete le persone che lavorano con voi?

In verità è aperto a chiunque voglia partecipare. C’è una fascia di età più o meno stabilita, ma molto flessibile. Di solito tra i 25 e i 40-45 anni perché è una frangia di età che ci corrisponde perché parliamo di una sensazione molto generazionale, di persone che sono nella loro fase attiva. Però se arriva uno di 50 anni o di 20 va bene lo stesso.

 

Aiuta essere attori?

Assolutamente no, anzi. Non serve essere professionisti. L’idea è la presenza, il corpo delle persone. Solo nel caso del Tai-Chi servono 6-7 persone che abbiano un po’ di dominio del corpo più che altro perché non ci sono tante prove e c’è bisogno di saper mantenere l’equilibrio. Alla fine, gli attori non sono quelli che meno ci interessano, ma sicuramente sono quelli che hanno meno tornaconto a partecipare allo spettacolo perché per loro è un po’ più frustrante il tipo di lavoro perché, appunto, non ha un bisogno straordinario di qualità di scena. Tu sei lì e stai seduto, nel caso della conferenza, o fai Tai-Chi o stai ballando, non ci sono frasi, tutto è molto nel presente in questo senso performativo, nel senso che nel momento in cui c’è un po’ di recitazione allora mi si rompe l’idea di realtà che è invece ciò di cui abbiamo bisogno in scena. Dunque, di solito, è meglio se le persone non hanno questo atteggiamento che un po’ si impara nella scuola di arte drammatica – che anch’io ho fatto – perché sono più naturali.

Nel vostro spettacolo fiction e documentario vanno di pari passo.

Sì, questa è la parte più emozionante perché ti rendi conto che la gente ha qualcosa da raccontare, che veramente ci sono tante storie, tante cose da ripescare, da ricordare, da riprendere, da rispolverare. La drammaturgia che abbiamo preparato è solida e ci permette di lavorare con questa improvvisazione, questa naturalità, questa non professionalità, il poco tempo a disposizione. Il tema radicale che viene trattato è l’idea di conflitto ed è semplicemente uno specchio per vedere come sono stati i conflitti del XX secolo e come sono i conflitti o possono divenire i conflitti nel XXI secolo, a livello globale o meglio collettivo, comunque una guerra. Infatti Guerrilla gioca con la fiction di una guerra nel 2023.

 

Si tratta di una guerra più mentale che fisica.

Assolutamente. C’è tutto un parallelismo tra la guerra interiore e la guerra più sul piano storico. Alla fine è sempre tutto legato perché nel momento in cui le persone non sono a loro agio, non stanno bene, non sono sane, non solo fisicamente, la possibilità, la probabilità di un conflitto reale si fa più evidente, sale a livello esponenziale.

 

Il cinema è un punto di riferimento nel vostro lavoro?

Non posso dire che non abbiamo riferimenti cinemtaografici perché ne abbiamo un bel po’, però per noi è molto importante dividere il mezzo cinematografico dal mezzo teatrale. Sono esperienze diverse. Siamo figli del nostro tempo e quindi il cinema è il modo di raccontare per eccellenza, è molto presente in noi, però è anche vero che il mezzo teatrale per noi è importantissimo e sappiamo bene che non è la stessa cosa. Personalmente penso che il teatro che prova a fare cinema è un teatro fallimentare perché non può sostituirsi al cinema.

 

Lo chiedevo perché uno dei vostri spettacoli si intitola Escenas para una conversación después del visionado de una película de Michael Haneke.

Haneke è un riferimento per quanto riguarda i temi che affronta, il modo in cui tratta le immagini e le storie, quello che rivela nei suoi film che è l’idea del fascismo quotidiano, l’idea di una civilizzazione, di regole, un buon andamento diciamo sociale, ma una violenza più velata, più nascosta, più perversa perché non è una violenza di sangue, di armi e neanche quasi una violenza di parola, è silenziosa, e la nostra pièce va in questo senso. Comunque Haneke, a livello anche di ritmi e di immagini, per noi è un maestro.

 

Foto Titanne Bregentzer