Tomas Milian: dall’Actor’s Studio al Monnezza passando per Visconti

Le dichiarazioni che trovate qui sotto sono tratte da interviste rilasciate, nel corso degli anni, da Tomas Milian a Il Messaggero, Paese Sera, Il Corriere della sera, Epoca, L’avventurosa storia del cinema italiano.

Mio padre il generale

Mio padre era generale dell’esercito, giocatore di polo, apparteneva insomma a una famiglia di quelle che oggi in Italia vengono definite reazionarie, anche se la mia lo era solo per un certo modo di vivere, per un certo tipo di educazione e non per la cattiveria che in genere va a braccetto con quell’etichetta. In più eravamo imparentati con l’unico cardinale che c’è stato a Cuba, quindi tutti in casa erano molto cattolici. Cattolici, militari, sportivi, accesi di amore per la patria e per il clan familiare. Vivendo chiuso in questa specie di ambiente ignoravo che esistesse un pensiero detto di sinistra, non sapevo niente e di conseguenza consideravo tutto normale. Se la mia fu una gioventù dorata dal punto di vista sociale fu invece un inferno da quello privato, spirituale, formativo. All’età di 12 anni – un fatto che ho raccontato una volta e sui cui mi ero ripromesso di non tornare più – mio padre, in divisa dell’esercito, si suicidò davanti a me. Inutile dire che questo suicidio mi sconvolse, che mi creò un complesso di colpa, poiché per parecchio tempo pensai che si fosse tolto la vita perché era scontento di me, perché avrebbe voluto vedermi allievo dell’accademia militare mentro io scrivevo delle cosette di teatro, passavo ore a dipingere, tutte attività che detestava perché considerava le manifestazioni artistiche cose da froci. Solo anni dopo mi fu chiarito il vero motivo per cui aveva deciso di morire ma ormai il danno era fatto e questo senso di colpa mi angustiò l’adolescenza. Frequentavo la terza liceo quando vidi un film di James Dean, La valle dell’Eden, e mi identificai con la storia. Così cominciai a leggere tutto quello che aveva fatto Dean per diventare attore e da un giornale appresi che aveva studiato all’Actor’s Studio di New York, la scuola di Marlon Brando e di tanti altri grandi e decisi che anche io l’avrei frequentata.

 

Al Festival di Spoleto

Uno scrittore scrisse un lavoro per me che fu messo in scena Off Broadway e in cui ottenni ottime critiche, in questo lavoro mi videro Giancarlo Menotti e Jean Cocteau che mi convocarono per offrirmi di andare a Spoleto per il Festival, aggiungendo che non importava che non parlassi italiano perché si trattava di una pantomima. Io ero dubbioso perché pensavo che magari nel frattempo mi sarebbe sfuggita qualche parte importante. Comunque andai e feci una pantomima di Cocteau per la regia di Franco Zeffirelli. Poi un giorno vidi arrivare questo signore, questo regista, Mauro Bolognini, il quale mi offrì di fare La notte brava. Dissi a Bolognini: “Ma come faccio, io non parlo italiano…” E lui:”Che c’entra? Qui da noi si doppia”. Rimasi molto sorpreso e anche un po’ disgustato, perché pensavo che il doppiaggio significava non essere un attore. Lui non capiva il mio concetto, insisteva e così accettai la parte, più per le 500mila lire che per altro. Con Il bell’Antonio sono entrato nel vero cinema italiano. Io non capivo niente. Sono diventato famoso perché giravo film impegnati come attore serio e invece ero ridicolo, ero ridicolo perché non comprendevo un accidente di quello che stavo facendo, dato che era una cultura che non mi apparteneva, che non conoscevo. Parlavo inglese e venivo doppiato. Nel Bell’Antonio cercavo di muovere le mani come le muovevano gli italiani secondo il cliché che di loro danno gli attori americani, i quali in questi ruoli sono pietosi. Quello non era il tipo di cinema che volevo fare. Avevo sognato un cinema in cui si credesse agli attori e al contrario i registi italiani, con rare eccezioni, non sapevano troppo dirigerli. Lo sapeva fare Citto Maselli e sapeva farlo anche Nanni Loy, che fu il primo a farmi capire come si faceva un borgataro.

Boccaccio 70

 

Un contratto capestro

Con il contratto Vides percepivo 250mila lire a mese. Per quella cifra ad un certo punto arrivai a girare due film contemporaneamente: durante il giorno facevo Giorno per giorno disperatamente, girando a Santa Maria della Pietà, e di notte Visconti mi vestiva da conte per il Boccaccio 70. In tutto dormivo due ore. In quel periodo capii il termine italiano di contratto capestro, però era anche un contratto che io avevo lucidamente accettato, conscio nella mia ambizione, che mi sarebbe servito a farmi un nome. Certo, dopo cinque anni, quando Cristaldi mi chiese se volevo rinnovarlo per altri cinque, risposi negativamente. E allora trovandomi senza una lira feci il primo western.

 

Cuchillo e Monnezza

A mio avviso tanti western terzomondisti andarono molto bene come incassi perché, mentre l’eroe era sempre americano, il terzomondista poteva essere in un certo senso anche il sottoproletario italiano. con ciò non voglio dire che l’Italia sia un paese del terzo mondo, per carità, però a essere sinceri bisogna ammettere che c’è molto sottosviluppo. Così come in tanti altri paesi dove i miei film facevano e fanno successo – la Spagna, la Turchia, l’Arabia, l’Africa, Il Sud America – il popolo aveva bisogno del supereroe, il bounty killer anglossassone, duro, inespressivo, d’acciaio, e che questi andasse alla caccia di un poveretto in cui loro si identificavano perché, per una specie di rapporto odio-amore, i poveracci di qualsiasi nazione siano, anche se tifano per il diseredato provano ammirazione per il supereroe, nell’inconscio sognano di emularlo. Il Monnezza e Nico il Pirata sono stretti parenti di quei western e di Cuchillo. Il Monnezza non è altro che un Cuchillo romano rivisitato, tanto per usare un termine che mi è profondamente antipatico, e Nico il Pirata è in chiave moderna, il Lee Van Cleef di La resa dei conti. Sì credo proprio che il mio successo sia durato tanto a lungo nel tempo perché dopo Cuchillo sono riuscito a sdoppiarmi facendo in una serie di film questo Monnezza, ossia il ladro, il diseredato, e in un’altra Nico il Pirata, ossia il poliziotto, il supereroe.