Vincenzo Rossini: Unadimille, non sono solo canzonette

Un dizionario-catalogo-atlante della canzone italiana contemporanea. È Unadimille. Mille canzoni italiane dal 2000 a oggi, raccontate di Vincenzo Rossini (Arcana, € 25), nato nel 1983, per anni condirettore del Milano Film Festival, anima del blog Unadimille.it, nonché nostro collaboratore. Canzone d’autore, pop, rap, trap, rock, elettronica, folk, r’n’b, nessun genere manca all’appello. Rossini ha «considerato solo canzoni in lingua italiana predominante», ma trovano spazio anche brani «integralmente in dialetto». Un’analisi accurata che prende in considerazione non solo i testi ma anche la musica, dando uguale risalto a cantanti noti al grande pubblico e ad artisti più di nicchia o poco conosciuti, alcuni non più in attività. Un viaggio nel nostro passato recente «in cerca di piccoli squarci su cosa è diventato il nostro stare al mondo e di riflesso il nostro raccontarci in musica in questi vent’anni» che si rivela uno strumento prezioso per cercare di capire lo spirito del tempo in cui viviamo.

 

 

Prima di un libro Unadimille è un blog. Ci racconti come è nato?

Nel 2017 per dare sostanza a una passione che ho sempre avuto per l’analisi e la lettura della canzone, ho pensato di dare vita a un progetto online dedicato esclusivamente alla canzone contemporanea. Ho scelto questo filtro perché ho spesso la sensazione che il racconto che facciamo in Italia della nostra canzone sia molto sbilanciato sull’elogio del passato. Non sono contrario, intendiamoci: la canzone leggera dell’era della discografia pop, quella dal dopoguerra in poi, ha prodotto decine di personaggi che hanno influenzato la nostra cultura, l’intero Paese, ci sono autori che hanno scritto cose geniali, facendo evolvere il nostro modo di esprimere le emozioni. Però va anche detto che la canzone è una cultura giovane, e proprio per questo la sua irruenza e la sua capacità di struttura si manifestano nelle prime fasi. Sono cresciuto tra gli anni 90 e Duemila all’interno di un contesto in cui il nuovo era sempre più raro da trovare. L’idea che i contemporanei non riescano a eguagliare, e men che mai a superare, i maestri del passato a mio parere rappresenta un limite nella visione di quello che la canzone è oggi.

 

È un discorso questo che vale per la cultura in generale.

Sì, siamo nell’epoca del passato, o meglio come diceva Marc Fisher, in cui hai un passato che neanche hai posseduto, ma che percepisci come tale: io ascolto dei suoni che mi riportano a un’epoca del passato che non ho vissuto, ma che per me è epoca del passato e questo schiaccia ovviamente la creazione di qualcosa di nuovo. Sono suoni che ti appartengono perché la cultura in cui sei immerso è del confronto non alla pari tra il passato e l’oggi. Partendo da questo principio ho pensato che mi sarebbe piaciuto leggere e scrivere qualcosa che guarda al presente, ai nuovi cantanti, ma anche a quello che i cantanti che hanno fatto grande il passato fanno oggi, per inquadrare il presente escludendolo dal peso del confronto con il passato. Per questo ho deciso che avrei raccontato le canzoni degli ultimi vent’anni, cercando di capire che tipo di tensione del presente raccontavano, che tipo di sguardo rispetto ai sentimenti, senza finire schiavo di quello che, per anni, ho letto in tanti giornali e riviste anche apprezzabili ovvero: «Sì, però, questo artista sta facendo quello che faceva Dalla», «Questo è troppo De André», «Questa è una Mina meno dotata»… Volevo uscire da questa logica perché, secondo me, abbiamo bisogno di dare un po’ più di credito ai nostri contemporanei.

 

Mille canzoni, non una di meno: un progetto ambizioso…

Ho sempre avuto una passione quasi inspiegabile, una vera e propria attrazione per tutto ciò che è lista, catalogo. Penso ci siano persone bravissime a raccontare e argomentare usando la narrazione e l’argomentazione e altre che mostrano la loro abilità nel sintetizzare, nel ridurre il sapere a quei pochi elementi che serve conoscere per accedere a un mondo. Un dizionario, se è fatto con cognizione di causa, è un’operazione estremamente affascinante perché, in primo luogo, è un’operazione di avvicinamento, consente di uscire dalla logica del «mi piace/non mi piace» e di dire proviamo ad avvicinare il potenziale lettore o il curioso a un mondo. Negli anni ho costruito tutto il mio sapere così e pertanto ho pensato di prendere vent’anni di canzoni, immaginando un numero che potesse offrire una rappresentazione sufficientemente ampia della canzone: 100 sarebbero state troppo poche perché avrei dovuto fare delle scelte obbligate, 1000 era un numero un po’ folle che mi permetteva, però, di poter parlare anche di artisti o di canzoni che non hanno avuto notorietà o successo ma che, dal mio punto di vista, hanno rappresentato un elemento di evoluzione. Ho pubblicato le prime analisi sul mio blog, poi grazie ad Arcana ho iniziato a scrivere il libro che non ha le stesse schede del sito. Sul sito mi prendo molto più spazio, sul libro ho, in alcuni casi, spazi più contenuti però il principio è lo stesso: provare a raccontare in che modo una canzone si è intrecciata con il presente, sia con l’analisi dei testi, sia con una lettura degli elementi musicali perché a volte il presente viene raccontato anche solo da un suono che si fa strada.

 

Per esempio?

Ormai ci stiamo abituando alla voce modificata con l’autotune, che è forse la più grossa innovazione acustica a cui siamo stati esposti. L’autotune non è solo il vezzo di uno stile, è un suono che rappresenta la nostra fusione ormai totale con l’elemento tecnologico, il nostro ragionare come uno smartphone, il nostro aver delegato ai dispositivi l’espressione dei nostri sentimenti. Il fatto che adesso non scriviamo più una frase d’affetto, ma usiamo un’iconografia che è quella degli emoji – e addirittura nelle ultime generazioni la nostra faccia è stata trasformata in un emoji personalizzato -, ha come equivalente l’autotune. Non a caso i ragazzini che ascoltano la musica trap, che è il più grosso scossone che la musica ha vissuto, si riconoscono in questo suono che magari gli adulti non capiscono e i rocker di una certa età denigrano, ma in realtà è la normale evoluzione di un modo di essere.

 

E infatti Fiorello in Viva Raiplay ha usato l’autotune per rifare Rose rosse di Massimo Ranieri e ha invitato rapper e trapper in trasmissione.

Oggi siamo in una fase in cui c’è stato già un assorbimento di alcuni nomi, perché sono entrati all’interno di un sistema discografico che da anni viveva una grossa crisi nell’identificazione di nuove voci. L’era dei talent show paradossalmente ha fatto fuori le personalità perché la musica in tanti casi è diventata puro karaoke, un canovaccio standard dove innestare il personaggio chiave, ma la predominanza del personaggio sul contenuto della musica ha fatto sì che a un certo punto ci fosse un rovesciamento. Adesso siamo in una fase in cui anche il sistema mainstream si sta accorgendo di queste voci, ma quello che il libro cerca di fare è provare a collegare questi personaggi alla nostra vita di Paese e alla nostra vita di esseri umani in questo tempo.

 

Nel libro non ci sono stroncature.

Non volevo fare “Il meglio di questi vent’anni”, probabilmente ci sono canzoni molto belle che ho escluso e altre, magari non particolarmente eclatanti, che ho messo. Ho provato a fare un racconto dell’espressione musicale, di quello che un cantante si porta dietro come sentimenti, come tensioni, come voglia di rottura, come voglia di ricollegarsi alla tradizione, ma non mi interessa dare un giudizio di valore, mi interessa andare da una persona potenzialmente curiosa dicendole di provare ad ascoltare un artista perché può sembrare superficiale o poco tecnico, di scarsa qualità, in realtà il suo successo, la sua fama è dovuta ad alcuni elementi che provo a raccontare e che si intrecciano con la storia del Paese. Poi non dirò mai devi ascoltarlo perché è bello, sarà il lettore a decidere se gli interessa o meno, ma il mio approccio è dare, su tutti i generi possibili, una chiave per entrare.

 

Così facendo non escludi nessuno, penso a un personaggio controverso come Fedez di cui analizzi Alfonso Signorini (eroe nazionale).
Non volevo avere l’arroganza di ignorare dei fenomeni che, per alcune fasce d’età o per alcuni mondi, rappresentano delle icone. Né tantomeno volevo avere la presunzione di dire questa musica non mi piace, non la ritengo all’altezza, volevo raccontare tanto di Ivano Fossati quanto di Fedez. È chiaro che per un personaggio come Fedez il contenuto musicale e lirico delle sue canzoni diventa quasi secondario o, se non secondario, diventa uno degli elementi, quello che è fondamentale e inevitabile raccontare è il modo in cui alcuni personaggi, soprattutto negli ultimi anni, hanno rotto con il passato nel modo di proporsi e nei canali con cui si sono proposti. Per questo non potevo ignorare Fedez, Rovazzi, certi personaggi emersi dai talent show perché alcuni hanno uno zoccolo duro di seguaci molto ampio, per cui anche in quel caso ho cercato un po’ di raccontare cosa c’era dietro. Faccio un esempio: non penso che Alessandra Amoroso abbia dato al pop chissà che cosa sul piano strettamente musicale, però so che è un’artista che da quando è emersa ha una quantità di fan che sono cresciute con lei e hanno visto in lei qualcosa che, secondo me, è una sorta di utopia romantica di purezza, perché stiamo parlando di un personaggio che tende a enfatizzare questi aspetti. In un mondo sempre più cinico e gretto nel raccontare dei sentimenti, la Amoroso non ha paura di dire che se una storia d’amore va in crisi, lei comunque aspetterà il suo amato, poi possiamo discutere se questa sia una visione novecentesca o contemporanea, però rimane il fatto che se ci sono migliaia di ragazzine che nel suo candore si riconoscono, questa cosa dobbiamo vederla e leggerla. Allo stesso modo, dal lato opposto, artisti simbolo della musica trap come Sfera Ebbasta, ormai siamo già entrati in una fase un po’ più approfondita del fenomeno, però, a metà degli anni Dieci lui e i suoi simili erano considerati come il punto più basso raggiunto dalla musica italiana. Se non hai interesse a superare il conflitto con lo stile musicale che magari non ti appartiene o non ti dice nulla, non capirai mai che dietro questa generazione di trapper c’è l’evidenza di un nuovo sistema di sentimenti, di valori – condivisibili o meno – che urtano, che ti chiedono di essere ascoltati e decodificati. Quindi provare a leggere cosa c’è dietro, privo di pregiudizi o di una sorta di atteggiamento moralistico/paternalistico è una bella sfida.

 

Affronti i generi più diversi analizzando non solo i testi delle canzoni, ma anche la musica.

Ci sono numerosi libri di musica molto validi che si soffermano troppo sul testo, anche questo è un retaggio del passato. In Italia i cantautori sono stati per anni visti come dei portatori di messaggi dal punto di vista lirico, magari lo erano anche, ma il nostro approccio nella lettura di questi fenomeni è sempre stato sbilanciato sulla parte didattica. “Didattico” è un aggettivo che uso sempre in termini positivi, ma non in questo caso, perché è un po’ una lettura da sussidiario, da libro scolastico, che tante volte ignora quanto dietro ad artisti come De André o Dalla ci sia prima di tutto una grande innovazione sul piano musicale (Crêuza de mä di De André è il trionfo di un suono che si sta aprendo al Mediterraneo trent’anni prima di questo tempo in cui il nostro futuro dipende dal Mediterraneo). Per questo ho cercato di raccontare le canzoni dando egual peso ai testi e alla musica, ma soprattutto ragionandoli insieme, quindi a volte uso termini tecnici, senza esagerare, sempre pensando che devono essere comprensibili… Penso sia importante che una persona percepisca che se una canzone sta passando da un umore minore a un umore maggiore, sta suggerendo un passaggio da una condizione magari di tristezza a una di liberazione, di sogno. Quando Arisa canta Meraviglioso amore mio, prima ha una strofa minore, triste e poi quando ha la visione di questo amore che le si è sciolto, si apre. Parlo spesso di Arisa nel libro perché sono convinto sia uno dei racconti più interessanti dal punto di vista sentimentale perché lei descrive tutte le fasi dell’amore, l’illusione, l’incanto, la delusione, passando da Sincerità a La notte. Quando senti le canzoni trap, il suono dei bassi è molto possente, cupo, perché ha a che fare con il nostro vivere nelle città attuali, con le tensioni che ci sono, con l’idea di una realtà sempre più chiusa su se stessa. Ma il basso della musica trap, i suoni liquidi che ha la musica trap ti parlano anche della digitalizzazione della nostra coscienza, della fluidità del passaggio dalle emozioni interiori alle emozioni messe sul digitale.

 

 

Iosonouncane è l’unico artista di cui analizzi un intero disco…

Ho deciso di raccontare tutto DIE, pubblicato nel 2015 perché, e non lo dico solo io, artisticamente è uno degli esiti più elevati mai realizzati in questi vent’anni, forse il più importante, e anche perché è un disco talmente astratto, assoluto e alto nell’ambizione artistica che mi sembrava impossibile isolare un pezzo, va ascoltato dall’inizio alla fine, è un disco che evoca tante sensazioni che hanno a che fare con il nostro essere sul ciglio di un abisso, che è simbolico ma anche fisico, ed è l’abisso del mare. Nel disco ci sono due protagonisti, un lui e una lei che sono sui due lati opposti, non vengono dati dettagli precisi, non sappiamo in che zona del mondo ci troviamo, però è chiaro che in questa sorta di allegoria che Iosonouncane ha costruito, c’è un racconto tesissimo del nostro prossimo futuro, il tema delle migrazioni… Negli ultimi anni si è un po’ diffusa l’idea che la canzone impegnata o la canzone che parla di questioni sociali sia qualcosa di pesante, appartenente a un passato che abbiamo superato. Sicuramente c’è stato un momento in cui la lettura del sentimento amoroso è diventata centrale, però è anche vero che, negli ultimi tre o quattro anni, ci sono moltissimi brani che parlano delle tensioni sociali che stiamo vivendo, sia di cantautori, sia di rapper e a volte anche di artisti pop. Magari vi fanno solo riferimento, però ci sono temi che sono diventati preponderanti: la nostra vita sul web, l’odio, l’esposizione al giudizio incattivito, le migrazioni, un tema caldissimo (penso a Io sono l’altro di Niccolò Fabi che propone una visione assolutamente alta della questione). Si parla molto anche del concetto di violenza, di solitudine, di isolamento, di sfiducia, dell’idea di sentirsi minoranza, sintomo di uno sconforto politico, di non riconoscersi più in certi ideali… Sono cose che canta il cantautore classico come può essere Brunori e un rapper come Ghali che ha il fegato di fare un pezzo come Cara Italia. E ci sono milioni di ragazzini che si riconoscono in queste canzoni, italiani non nella visione sovranista del termine, ma di terza generazione, con genitori di nazioni diverse che magari non parlano l’italiano, mentre loro lo parlano benissimo con gli accenti dei luoghi in cui vivono ed escono con i figli di altri italiani, nati magari da emigrati del Sud, di terza generazione anche loro. Mentre noi ci ostiniamo a vedere la canzone solo come un divertimento, o come qualcosa di troppo commerciale, tutto questo sta creando senso, sta creando espressioni emotive e non possiamo ignorarlo. Per questo oggi la canzone è assolutamente interessante da vedere in chiave sociale, non perché è politica, ma perché è uno specchio vibrante di quello che sta accadendo ed è anche un modo per avvicinarci a espressioni che non riusciremmo a capire in altri modi.