A Blast: vedere improvvisamente la realtà

blast-a-002La Grecia e la sua fragilità. Non è difficile, né troppo originale, leggere nella storia scomposta e tragica di A Blast un riferimento alla situazione politica ed economica del paese che, almeno negli ultimi anni, si è fatto cantore di un cinema dell’eccesso, ma lucidamente violento ed esasperato nelle dichiarazioni e nelle denunce. Meno sgradevole di Yorgos Lanthimos e Alexandros Avranas, meno incisivo di Miss Violence, meno paradigmatico di The Lobster (quest’ultimo presentato in concorso a Cannes ma ancora non uscito in Italia), A Blast è semplicemente un film a tesi, in cui, nelle vicende della protagonista e della sua famiglia, è iscritto il senso di una difficoltà ben più ampia. Il particolare che schematizza il senso generale di una società e del suo modo di vivere (e precipitare). Spiace, però, che su questa storia tanto prevedibile, non si sia innescato un meccanismo di allusione, sia sul piano narrativo che su quello del discorso. La storia di Maria e dei suoi tormenti, infatti, appare come punto di confluenza di facili parallelismi: la sua storia d’amore con il marinaio Yannis, la sua famiglia tutt’altro che solida (una sorella problematica, un padre assente, una madre sulla sedia a rotelle e un cognato simpatizzante per l’estrema destra) rappresentano il terreno fertile per il suo crollo emotivo e finanziario. Perché tutto il lavoro nel negozio di famiglia è stato vanificato dalla trascuratezza della madre che ha nascosto anni di conti e debiti da pagare.

 

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Come una visione improvvisa della realtà, cui segue un’esplosione di rabbia, invece, ampiamente anticipata. Syllas Tzoumerkas, al suo secondo film, dopo fortunati e premiati cortometraggi, sceglie la strada di un andamento spezzettato del suo racconto. Mescola il presente con frammenti del passato, continui ritorni, ripetizioni sull’asse si un’ossessione che non vuole spegnersi.  Il montaggio, quindi, è caotico, a tratti senza alcun disegno, mostrandoci gli eccessi esili di un microcosmo tutt’altro che approfondito. Manca l’analisi dei fatti e dei personaggi, che stimoli il raccordo tra i piani temporali e stabilisca una sorta di trascinamento dello sguardo. Un affresco senza prospettiva, sviluppato sull’impatto emotivo e sull’urgenza dei tempi, piuttosto che sulla ragionata organizzazione dei temi. Il crollo dei valori morali, la crisi economica, la paura che assale, la crescente ascesa del neo-nazismo ci compaiono davanti agli occhi come manifesti esibiti, semplicistiche rappresentazioni in un film acerbo e maldestro, che restano a livello della semplice intenzione. Perché non basta voler denunciare l’impoverimento culturale, sociale, umano che si è insinuato dalla piazza alla più minuscola manifestazione famigliare, è necessario sostenere ogni sguardo e ogni silenzio, legare i personaggi tra loro da fili sottili, sottolineare i cortocircuiti, le incomprensioni, i non detti, prima di rinchiuderli in una dimensione di claustrofobia e lasciare agire semplicemente le manifestazioni di frustrazione. Un occasione mancata e mancante di quelle sottotracce nervose che restano nella testa e nei pensieri dello spettatore.