A Locarno69 Jonas Mekas si racconta nello splendido I Had Nowhere to Go

photo1Nel 1991 Jonas Mekas pubblicò I Had Nowhere to Go, i suoi diari dal 1944 al 1954. Dieci anni che contengono fatti decisivi nella vita di colui che diventerà una figura di riferimento del cinema e della cultura underground. Sono gli anni della fuga, della lontananza, dell’esilio; della guerra che nel 1944 costrinse il futuro regista e il fratello Adolfas a scappare dalla Lituania natìa per evitare l’arresto da parte dei tedeschi; della prigionia, durata otto mesi, in un campo di lavoro vicino ad Amburgo; dell’evasione e della sosta in diversi campi di rifugiati, tra cui quelli di Wiesbaden e Kassel; del viaggio in nave per gli Stati Uniti che lo farà sbarcare a New York il 29 ottobre 1949; dei primi contatti di un emigrato con una quotidianità tutta da scoprire, con la comunità lituana newyorkese e con il cinema.

33

A Jonas Mekas e a quei dieci anni che gli sconvolsero la vita è dedicato I Had Nowhere to Go (film d’apertura della sezione Cineasti del presente del festival di Locarno), realizzato dal video artista Douglas Gordon (che con Philippe Parreno ha diretto nel 2006 Zidane, un ritratto del XXI secolo). Non un documentario, bensì un film doppio consegnato alla voce di Mekas e a uno schermo per la maggior parte della durata nero, un nero squarciato da lampi accecanti di rosso, bianco, blu e di immagini intagliate in esso, di varia provenienza e durata, specchio o visioni (uno scimpanzé che ci guarda sdraiato su un’amaca, un cervo che cade, una vegetazione verdeggiante, la silhouette notturna di una montagna, patate che bollono in una pentola, piedi che le pestano…) delle parole pronunciate da Mekas. Parole, frasi, che provengono dalle pagine dei suoi diari, che l’autore legge nel suo inglese incerto, insicuro, diventando segno preciso del dislocamento (il sottotitolo del film è emblematico: Portrait of a Displaced Person), del rifiuto a esprimersi fluidamente nella lingua del paese dove ha trovato riparo ma che non potrà mai essere del tutto la sua. Lo schermo nero accoglie il tono della voce di Mekas, dolce e lenta, che si interrompe e riprende leggendo momenti cruciali della prigionia e della fuga alternati a quelli dell’arrivo a New York. Il suo respiro, il rumore di una pagina girata, rende ancor più tangibile la rievocazione di quegli avvenimenti. La guerra è non solo udibile ma visibile nella sua tragica concretezza tanto nelle parole di Mekas quanto negli scoppi delle bombe che spesso risuonano come 222colonna sonora dello schermo nero. Ma non c’è solo la voce del regista di Walden (presentato in proiezione speciale al festival in omaggio a Mekas) in I Had Nowhere to Go. C’è anche, in apertura e chiusura di film, il suo corpo. All’inizio, dopo un primo contatto con il nero e con la voce off di Mekas, il filmaker lituano appare e racconta la sua prima esperienza di osservazione della realtà attraverso un obiettivo. Era il 1940, aveva 18 anni e l’esercito sovietico aveva invaso la Lituania. Con la macchina fotografica Mekas scattò delle fotografie dei soldati sovietici in marcia, uno di loro lo fermò e gli distrusse l’apparecchio. Una prima esperienza cancellata. Non cancellata, ben salda nella memoria, è la lingua, la poesia, la canzone, la musica lituana. Che emerge integra nello struggente, e politico, finale. La macchina da presa di Gordon inquadra il busto di un uomo che sta suonando la fisarmonica e cantando una canzone in lituano, poi, per un attimo, si alza scoprendo il volto di Mekas. È lui che suona e canta (proseguendo sulla fine dei titoli e sul nero successivo), che in tal modo si ri-appropria della lingua e della terra madre. Unico posto, nonostante i molteplici spostamenti, dove andare, dove tornare, dove sentirsi a casa.