A Trento Diving into the Unknown. Filmare l’impossibile

Personaggi singolari impegnati in situazioni particolari sono i protagonisti delle storie di Juan Reina, sceneggiatore e regista di una manciata di documentari, per i quali ha viaggiato tra Europa, Cina, Medio Oriente, con una predilezione per l’Africa, dove ha girato  ben tre dei suoi lavori (Operation Mannerheim, Albino United e Iseta – Behind the Roadblock). Con Diving into the Unknown (in concorso al Trento Film Festival e vincitore del premio Genziana d’Oro per il miglior film di esplorazione o avventura  – Premio “citta’ di Bolzano”) gira, invece, tra Finlandia e Norvegia un documentario dedicato ad un gruppo di sommozzatori speleologi e alla loro passione. Il progetto nasce per volontà dello stesso Reina, intenzionato a documentare l’immersione subacquea più lunga della storia, realizzata all’interno di una grotta sommersa in Norvegia. Protagonisti dell’impresa cinque speleosub finlandesi di grande esperienza, che, tuttavia, non riescono a prevedere il grave incidente che coinvolge due di loro. Durante quel’immersione muoiono due di loro, i cui corpi restano intrappolti nella grotta. A questo punto il progetto cambia completamente e diventa a sua volta una esperienza estrema: seguire i tre sopravvissuti nella spedizione clandestina (le autorità norvegesi hanno posto il divieto di immersione in quel luogo) che dovrà restituire i due corpi alle loro famiglie. Una sorta di prova oltre i limiti, che ha anche lo scopo di tornare sul luogo della tragedia e fare i conti con essa in modo concreto, per superare il dolore, la paura e voltare pagina.

 

Un percorso imprevedibile anche per chi filma, che pone l’accento sul vedere luoghi e situazioni per la prima volta. “Siamo andati in Norvegia per filmare la parte più profonda dell’immersione, perché nessuno lo aveva fatto prima”, si dice all’inizio, prima che la missione e il film cambiassero di segno e diventassero un’impresa di recupero e salvataggio quasi impossibile. È in questo momento che lo sguardo si sovrappone ai protagonisti, e il documentario assume la forma di una soggettiva libera e discontinua: vedere con gli occhi dei sub e sentire le loro emozioni, la paura, lo sgometo, il sollievo di aver portato a termine il loro proposito e la tristezza di aver perso due amici. Ci si sente immersi nell’oscurità della grotta e si prova il senso claustrofobico che segna tutto il film. Non solo perché a queste profondità può davvero venire a mancare l’aria, ma soprattutto per l’imperativo categorico di non perdere mai di vista l’obiettivo e la concentrazione. Ciò con cui si devono fare i conti sono i tempi e i modi dell’immersione, le reazioni fisiche, prima che esistenziali, di ognuno dei sommozzatori, eppure Juan Reina riesce ad andare oltre e ad osservare la bellezza crudele dei luoghi, a farsi ispirare dal silenzio assoluto delle profondità e incuriosire dall’enigma di ciò che si può trovare dietro l’angolo. La necessità di vedere di più e più in profondità è il vero motore di questo film, che si spinge oltre per osservare angoli nascosti del nostro pianeta, ma che non trascura gli abissi profondi e altrettanto enigmatici dei protagonisti.