Ad Astra di James Gray: nella solitudine infinita delle stelle

Sino alle stelle. Per ritrovare il padre, certo. Ma ovviamente per definire se stessi. Siamo nel cinema di James Gray e Ad Astra (in Concorso a Venezia 76) non può che essere un film sulla solitudine dell’eroe, sul suo infinito ritorno alla materia fondativa della sua astrazione dal mondo in cui si muove. Lo diresti differente dagli altri personaggi di Gray, ma il Maggiore Roy McBride è piuttosto il precipitato di tutte le storie di disappartenenza che questo straordinario regista ci ha raccontato sinora. Siamo abituati a figure lievi della loro pesantezza, nel cinema di Gray, e invece Roy McBride è pesante della sua leggerezza: lo conosciamo che si libra nello spazio, nell’orbita terrestre, leggero eppure fatalmente destinato a cadere su quella stessa terra sulla quale i personaggi grayani si muovono in pena, alla ricerca di qualcosa. A farlo precipitare è proprio quel padre da cui per una volta lo diremmo libero: niente famiglia, niente amori in corso, una monade dispersa nello spazio e ancorata alla sua solitudine. Sino a quando l’onda d’urto che colpisce la terra, proveniente dallo spettro lontano del padre, non lo fa letteralmente precipitare al suolo, restituendolo al suo destino fatale di appartenenza. Suo padre, il Comandante Clifford McBride, figura quasi mitologica delle esplorazioni stellari, disperso in missione mentre era alla ricerca di altre forme di vita nell’universo, torna dal suo passato e lo costringe a fare i conti con ciò cui appartiene: gli affetti, i ricordi mancati, la relazione con una sfera che lo possiede. E allora, come fosse intrappolato in un Big Bang esistenziale, Roy è rilanciato nello spazio, per una missione segreta che ha per destinazione suo padre, o almeno la sua base spaziale che da Nettuno fa partire quelle onde d’urto…

 

Ad Astra è costruito su questi movimenti contrapposti, l’andare e il tornare, lo spingersi nello spazio e il rientrare a casa. E’ la conseguenza diretta della Civiltà perduta, il figlio che cerca il grande esploratore perso nell’infinito sconosciuto, smarrito nella sua inesausta ricerca di altri mondi lontani. Il dilemma resta sempre quello della solitudine incisa nello spirito: Roy McBride  è una figura completamente introflessa, concentrata come un grumo di solitudine scaturito esattamente dalla ricerca condotta dal padre, ossessionato dalla certezza che l’Uomo non è solo nell’universo. In questo dialogo di opposti, il film si struttura come una bolla di silenzio in cui il bisogno di esprimere una visione complessiva dell’esistenza si ammutolisce. Ad Astra  è il contrario di qualsiasi architettura palingenetica ci sia stata offerta dalla fantascienza cinematografica, non elabora visioni né edifica spiegazioni, si affida alla fideistica ricerca di un altro da sé nel quale l’uomo possa annullare la propria solitudine. E il dialogo col padre è un dialogo che si spegne nella sua cieca speranza nell’esistenza di altri mondi, nuove identità. Come sempre James Gray occlude le vie di fuga per i suoi eroi, li spinge nel loro destino, li costringe ad essere nient’altro che se stessi: Roy McBride non è altro che un uomo, consegnato al suo destino di solitudine, condannato a ritornare alla sua felicità immediata e conclusa.