Brad Pitt plays Max Vatan and Marion Cotillard plays Marianne Beausejour in Allied from Paramount Pictures.

Allied e l’impossibilità di riprodurre il reale

“(…) la verità non è neanche l’ultimo inganno, la verità è il primo inganno. Ma puoi anche metterci al posto [della verità] l’occhio: affidare all’occhio la verità vuol dire affidare la verità al primo e più forte degli inganni, cioè l’occhio che è più forte, perché ti fa sembrare…no, non ti fa sembrare, è il mondo come lo tocchi, come lo vedi, e quindi ti affidi a una cosa inaffidabile al massimo, e allora se è inaffidabile al massimo che ti importa del digitale? Al limite il punto formalmente è: c’è una forma di desiderio simile quando ti trovi di fronte al problema-digitale in un film, ovvero la forma della bulimia di volerlo comunque vedere. Finché c’è un film da vedere vuol dire che siamo ancora vivi, poi invece siamo inghiottiti dalla indifferenza, dalla differenza tra un fantasma e l’altro. Il cinema ha spesso questa funzione proiettiva, prima proiettiva e poi protettiva, nel senso che protegge dall’essere tutto uguale, siamo destinati o provenienti dal cinema, siamo destinati a provenire da dove siamo già provenuti. Diciamo che probabilmente il cinema è la cosa che ancora ci dà la sensazione di essere vivi.”

 

 

La lunga citazione proviene da una bellissima intervista a enrico ghezzi di Raffaele Meale e Alessandro Aniballi che trovate qui (http://quinlan.it/2017/01/15/enrico-ghezzi-la-verita-e-il-primo-inganno/) e che vi esorto a leggere, sperando che gli autori non se la prendano per essere stati così biecamente sfruttati. Ma il fatto è che mentre ero alla ricerca di un incipit che desse un senso alla ricerca di un’interpretazione che desse un senso alla ricerca di non so cosa per dire qualcosa su Allied – Un’ombra nascosta di Robert Zemeckis, mi è sembrata un ottimo segno.

Qui ci dovrebbe stare un’obbligatoria (ma anche no) piccola sinossi di ciò che si narra nel film (la parte di questa obsoleta pratica che è scrivere di cinema che mi interessa meno, e così spero a voi, ma tant’è): e quindi eccola, copiaincollata con qualche variazione per evitare denunce da una delle tante recensioni a caldo e spesso scellerate che circolano in rete (abituatevi a lasciar passare qualche tempo tra il vedere e il vergare, compagni digitali: che non fa altro che bene). Marocco, 1942, Seconda Guerra Mondiale. La  spia franco-canadese Max Vatan (Brad Pitt) deve portare a termine, fingendosi il marito dell’agente francese Marianne Beauséjour (Marion Cotillard), una pericolosa missione che prevede l’assassinio di un ufficiale nazista. Una volta compiuta, i due si sposano davvero e vanno a vivere a Londra con il loro bambino nato durante un bombardamento. Ma il loro idillio si spezza quando un ufficiale insinua il sospetto che Marianne possa essere una spia tedesca.

Marocco significa immediatamente Casablanca. Una donna sulla cui identità gravano pesanti sospetti dice subito Hitchcock. E chissenefrega. “Allied” significa “alleati”. Vuoi perché in amore ci si allea (contro il destino e le metamorfosi ineluttabili dei rapporti malgrado ogni promessa di felicità illusoria benché benigna che la loro auroralità porta in serbo), vuoi perché in Zemeckis i titoli sono come sempre un eloquente microtesto: e quindi gli alleati in campo possono essere metaforicamente

anche                                        il                                                cinema                                      classico

(MaroccosignificaimmediatamenteCasablanca.UnadonnasullacuiidentitàgravanopesantisospettidicesubitoHitchcock) e la sua modalità di rappresentazione e sopravvivenza nell’odierno sistema digitale slittante hollywoodiano (un perno teorico attorno a cui ruota in gran parte anche lo straordinario e tomista La battaglia di Hacksaw Ridge di Mel Gibson: ovvero La passione di Cristo Vol.2). Ma vuoi anche perché lo Zemeckis titolista (!) giuoca spesso -in originale- con grazia crittografica all’anfibologia: pensate a Contact; alla sublime intuizione della spezzatura del Tom Hanks Cast Away (naufrago, ma anche lontano da un cast), alle opposizioni di Flight e The Walk, ma soprattutto a What Lies Beneath, dove il verbo può anche essere letto come sostantivo plurale e costituire un precedente diretto di Allied, che pronunciato suona come I lied e letto sembra invece una sciarada incatenata di All e Lied. Cinema del (riflettere sul) mentire. Cinema per mentire. Oppure cinema in cui la verità e l’occhio sono i primi inganni. Il cinema, per Zemeckis, è da sempre un problema di rappresentazione, di dispositivi, di mezzi, di tecnologia, di rapporto tra soggetti e sfondi, di riflessione sul reale e sulla sua figurazione: e il percorso adagiato narrativamente (e soprattutto dialogicamente) dallo sceneggiatore Steven Knight in una falsa riproposizione di stilemi d’antan, è il terreno di coltura convenzionale dentro cui Zemeckis rieleva ai massimi livelli il suo status di ontologo della deriva dei segni del contemporaneo. Tutto, in Allied, è gratuito. Tutto è simbolicamente fasullo, su tutto aleggia il velo dell’inganno, della deception: e la natura stessa delle immagini del fido operatore Don Burgess è esposta preminentemente come un ragionamento di consapevolezza politica sulla forma in “un racconto sul cinema e sullo storytelling attorno ai fatti della Seconda guerra mondiale” territorio in cui “lo Spielberg di Salvate il soldato Ryan intendeva riprodurre quei fatti, nella maniera più realistica possibile” (i virgolettati sono di Emanuele Sacchi, che ringrazio). Perché i detrattori di Zemeckis, che sono molti, mal sopportano proprio questo: che il maestro Spielberg sia invecchiato (pur restando un maestro, per altri -e splendidi- motivi) e che l’allievo Zemeckis gli abbia dato progressivamente sempre più punti sul piano della lucidità teorica (in Spielberg quasi sempre incidentale, risultante, corollaria: mai programmata), incurante (forse: non sapremo mai quanto lo abbiano davvero scottato i flop economici) della ricezione sempre osteggiata del suo pervicace progetto di ricerca.

E a questa disarmonia che manda in tilt gli apparati critici più polverosi e vetusti, Zemeckis risponde beffardamente andandosi a cercare i topoi più assurdi entro cui inscrivere il suo discorso (qui i già citati Curtiz e Hitchock, ma anche, mi sia concesso, il Fritz Lang di Cloak and Dagger: per quel gioco di maschere e false identità su complotto e psicoanalisi di cui parlavano Eisenschitz e Bertetto), per alimentare il cortocircuito, e costruendo sequenze tecnicamente clamorose e  ineffabili (nonché esplicitamente oniriche: l’amplesso nell’abitacolo dell’auto inghiottita dalla tempesta di sabbia, il parto all’aria aperta durante il bombardamento aereo, ma soprattutto l’incipit/manifesto con lo straordinario planare infinito di Vatan paracadutato sulle dune) per il solo gusto di riprodurre il mondo come fondale di una scena (Giona A. Nazzaro, conversazione privata, 2017). Quello che Allied ha di clamoroso, però, al netto della prosecuzione di un’idea ferrea di riflessione sull’impossibilità di riprodurre il reale e al contempo la smisurata illimitatezza delle possibilità di immaginarne e realizzarne una copia così (im)perfetta da sembrare vera (e The Walk resta in questo senso insuperabile per il suo collasso di intenzioni e risultati), è ancora l’inevitabile indicazione di come (analogamente all’Eastwood collettivista di Sully) Zemeckis resti uno dei pochi registi americani contemporanei a esibire il (suo) cinema eminentemente come il risultato di un lavoro di squadra: forse l’unico ad aver preferito alla figura dell’autore-demiurgo quella dell’armonizzatore di un disegno comune. [Concedetemi ora un virgolettato di autocitazione finale aggiornato e remixato dalla chiosa al mio pezzo su Linus (novembre 2007) a proposito di La leggenda di Beowulf, poi tolgo il disturbo]. “Il che è abbastanza divertente, pensando alle vecchie polemiche sorte all’indomani di Forrest Gump dove, insomma, la storia dell’uomo-massa non si riusciva effettivamente a capire se fosse di destra o di sinistra. Perché incartati nel metodo e boccheggianti nell’acquario del contenutismo e del Cinema come produzione di senso e veicolazione di messaggio, non riuscivamo a renderci conto che il lavoro di Zemeckis superava questa logica di individuazione ed era comunista nel senso più wikipedico del termine. Che cos’è infatti il cinema tutto di Zemeckis se non una formulazione di iperrealismo socialista che soddisfa persino le necessità teleologiche dell’enunciazione gorkijana (rivolgersi a Contact, please) e del concetto engelsiano della trasformazione del reale nell’era del capitalismo? Un’arte post-reale, quindi forse anche un sogno, come dimostra il suo mostrarsi quasi sempre e da sempre [Allied non fa eccezione] in anfratti e declinazioni del buio. Solo che, in quanto sogno, disattende consapevole il precetto antiromantico di Gorkij: perché (come se il sogno fosse l’unico luogo in cui ancora far palpitare la carne, il sangue e il cuore) anche Allied va a ingrossare le file degli amori zemeckisiani, sempre naturalmente dolorosi. Siano essi il problematico e sbilanciato incastro tra l’anima del  coniglio Roger e il corpo della vamp Jessica; l’incompatibilità tra l’innocenza dell’idiot savant Forrest e la trasgressione dolente della dropout malgré soi Jenny; il legame filiale spezzato di Ellie Arroway; il tradimento metafisico di Norman Spencer; l’incapacità di dare di Ebenezer Scrooge.” Sì: vale ancora tutto, non è cambiato molto da allora. Per fortuna.