Batman v Superman – Dawn of Justice e i rigatoni con la pagliata

batman-v-superman-dawn1-418x219 E quindi: l’Uomo d’Acciaio è un Salvatore o una minaccia? L’altro da sé salvifico e cristo (nel senso di unto) o un dio che potrebbe impazzire? Se lo chiede il governo degli Stati Uniti, se lo chiede il popolo diviso tra il terrore del Terrore e del terrorismo e la fascinazione superomista da supermercato, se lo chiede (ma sa già la risposta, o finge di saperla) il giovane scienziato Lex Luthor, bramoso di kryptonite e in qualche misura gemello di un tale che sembrava il jolly di un mazzo di carte. Ma soprattutto se lo chiede l’Uomo Pipistrello, il vigilante miliardario e un po’ fascio che difende Gotham City da due decenni, ma di cui Clark Kent, pur cronista crumiro del Daily Planet e malgrado la scarsa distanza tra Metropolis e il bat-feudo, pare non aver mai avuto percezione alcuna (giornalisti: manica di ignoranti). La risposta, per Bruce Wayne, è una sola: vuoi per un mal digerito senso di responsabilità, vuoi per quel tanto di invidia camp per quella mantello rosso e quel blu cangiante del costume che stona col suo neoprene dark antiproiettile e quella cappa oscura che gli fa anche il piede piccolo, Superman va affrontato e se possibile (ma è impossibile, no?) sconfitto. E l’unico modo per farlo è sottrarre a Luthor il famoso minerale verde tallone d’Achille dell’alieno per plasmarlo a mo’ di lancia di Longino e provocarne l’ira funesta. Ma al mondo non ci sono solo capitani d’industria palestrati e figli adottivi di kentuckiani a giocare col delirio d’onnipotenza: esistono anche metaumani ultraveloci o palombari che (finora) si nascondono alla vita pubblica, e un’amazzone strafica malgrado i suoi 3/400 anni d’età che invece deciderà di essere della partita quando lo sconsiderato Luthor unirà il suo DNA a quello della salma del generale Zod per creare un mostro terrestre/kryptoniano in grado di scatenare l’Armageddon.

 

Più o meno.

 

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Batman v Superman – Dawn of Justice è tante cose: l’attacco frontale e nero alla scintillante rutilanza del Marvel Universe made in Disney, innanzitutto (e quindi anche il plugin per favorire la creazione della Justice League, e contendersi a suon di miliardi una fetta d’immaginario supereroico di squadra); un tentativo di riflessione d’impronta nolaniana sull’indecidibilità del concetto di Giustizia nel fumoso scenario di un presente funestato dalla diffidenza verso credo inconciliabili, dall’orrore per la follia che essi alimentano e dal terrore per lo svuotamento di senso del concetto di sicurezza; una rilettura sui generis della mitologia arturiana (la prima parola che si legge oltre ai titoli di testa è Excalibur); e ovviamente un veicolo destinato a corroborare l’industria del merchandising e delle action figures, a disposizione anche di chiunque voglia apporre loghi evocativi e sempiterni su ogni possibile genere di conforto (dalle nostre parti Superman sta per esempio sulle patatine, mentre Batman su pacchetti di bubblegum che si potrebbe presupporre abbiano sapore di guano) per la gioia di quello sfruttamento iconico massivo che la franchise di Star Wars ci insegna da quarant’anni essere il vero valore d’uso del Mito. E, certo, anche un tentativo di fondere (calpestandolo) a uso dei fan duri e puri di quei comics d’autore che con le loro versioni blockbuster c’entrano sempre più come i vecchi cavoli a merenda, il lavoro di geni come Frank Miller (ma lo scontro Bats/Supes del Ritorno del Cavaliere Oscuro è poco più che una citazione a piè di fotogramma) o di onestissimi storyteller come Dan Jurgens, Louise Simonson, Roger Stern, Karl Kesel e Jerry Ordway (e la memoria-stravolta- del loro ciclo della Morte di Superman è ben più presente della troppo annunciata e alfine negata visione milleriana). Tanta roba, sulla carta. Ma è un menu che necessitava di altri chef. Perché David S. Goyer sappiamo tutti chi è, e non è bastato che Affleck si portasse dietro il Chris Terrio di Argo per ricompattare il suo solito script gruviera. E perché Zack Snyder sta a Escoffier come un oste del Testaccio sta a Gordon Ramsay o Carlo Cracco (paragoni che mi rendo conto essere fuori luogo visto che il loro Hell’s Kitchen si addice più a essere citato parlando di Daredevil che dei due campioni DC). Snyder sa fare bene una cosa sola: i rigatoni con la pagliata. Per un’ora e rotti, però, memore del (neo)realismo socialista che ammannì alle folle con l’epica d’estetica sovietica di Man of Steel, tenta anche qui di far passare le uova di lompo per caviale beluga.

 

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Ma acciaccato dal cocente smacco del film precedente, è abbastanza furbo per scegliere di trasferire il punto di vista dagli occhi troppo sovente di bragia di Superman a quelli segretamente bistrati di Batman: e dalla pietas di un Gesù che vola rombando anziché camminare placidamente sull’acqua si passa al furore deicida di un Batman mai così superuomo, ma ovviamente umanotroppoumano, che sussume in un’unica figura l’autorità cieca e pilatesca di un intero Sinedrio. Confidando che il palato grezzo della massa non distingua le uova di succedanei da quelle del vero storione, ci dà dentro con ogni più spudorata metafora, con tutto il più fasullo armamentario  politico (ah ah ah) e simbolico possibile (clamorosa la sequenza onirica con le super-Schutzstaffeln contro Indiana Batman), nel tentativo disperato di servire un antipasto raffinato che nobiliti eticamente l’attesa per la pietanza principale. Ma poi la pagliata arriva: e dopo l’unica idea decente di sceneggiatura (un evento davvero inatteso che non riveliamo e che pone fine per il giubilo dello spettatore alla sofferente presenza della povera Holly Hunter, scaraventata in una gag finale che è la stessa del Marescotti leghista di Cado dalle nubi alle prese con l’ampolla padana) i sottotesti alti finiscono giù per lo sciacquone e i due antagonisti attaccano a fraccarsi di mazzate (perdonate il francesismo) per la gioia di chi ricreerà l’epico scontro manovrando pupazzetti sblisterati come il Lord Casco di Rick Moranis in Balle spaziali. Sono nemiciamici, come Red e Toby: e non ci mettono molto, grazie all’omonimia delle rispettive mamme (permettetemi di tacere anche di questa sublime trovata), a capire che è meglio piantarla di litigare e unire le forze contro la vera minaccia incarnata da Luthor e da suo “figlio” Doomsday. E soprattutto che a calmierare la loro apoteosi di testosterone servono le donne: e per una Lois Lane che recupera la kryptonite necessaria a sventrare l’ibrida creatura ruggente citando (non si capisce quanto volontariamente) l’immersione di Valerie Perrine nella piscina del Superman di Donner, ecco una Wonder Woman (mai apertamente citata con queste credenziali) che accompagnata da una simpatica chitarrina (ehm) contribuisce come può e sa a riportare ordine nel caos. Paradossalmente, la pagliata non è però indigesta quanto l’appetizer: in ossequio alla dinamica michaelbayana e con il valore aggiunto del Dolby Atmos (il prossimo nemico dei vostri timpani, che fa sembrare il sonoro di Tron Legacy una campfire song di Michelle Shocked), nel parossismo del climax per almeno cinque minuti di orologio neanche si capisce cosa si agiti effettivamente sullo schermo. E il film finalmente mantiene e pantografa la promessa del suo titolo, tra battute epiche (Batman che salva ma’ Kent/Dianthe-jokere Lane presentandosi come “un amico di suo figlio”; lei che gli risponde “L’avevo capito dal mantello”), autoironia sull’agnizione gratuita di Gal Gadot (Superman chiede a Batman se Wonder Woman è con lui e lui gli risponde “Io credevo fosse con te”), spassose specularità telefonate (Eisenberg che monologa sproloquiando con gli occhi rivolti a quel cielo da cui è palesemente convinto che Heath Ledger lo stia benedicendo), ammicchi al futuro prossimo (Jason Momoa che introduce ad Aquaman con l’eleganza di uno spot per shampoo a base di alghe marine) e un inevitabile sacrificio finale che gli uffici stampa implorano di non spoilerare ma che figurati se l’ultima inquadratura non va a rimettere in discussione. E al tirar delle somme, la mutria per le eccessive e ridicole ambizioni della prima parte si dissolve incrociandosi nel sorriso ebete che provoca il delirio disarticolato della seconda. Anche perché ad attanagliarci all’uscita sono ben altri dilemmi che quelli esposti in apertura. Per esempio: perché Henry Cavill è l’unico attore del mondo in grado di farsi rubare la scena anche da un lavandino? Non proseguo perché non è professionale poi vi arrabbiate.