Cannes 71 – Loznitsa e la guerra ibrida del Donbass

Attonito, ai limiti dell’impassibile e sempre più tendente al grottesco: il cinema di Sergei Loznitsa continua a alternare il versante documentario a quello finzionale, intrecciando in maniera sempre più dinamica il confronto tra la realtà storica e la sua posa in opera morale. Con Donbass (film inaugurale del Certain Regard) si cala nel cuore della questione ucraina, rappresentandola attraverso 12 quadri drammaticamente grotteschi che descrivono una situazione umana, prima ancora che storica e politica, schiantata contro il muro della violenza e della sopraffazione. La scena è quella che in maniera silente continua a muoversi sotto gli occhi internazionali nell’Ucraina Orientale: una rivolta che è una vera e propria guerra, o meglio “una guerra ibrida che mescola conflitto armato, crimine e saccheggio perpetrato da gruppi separatisti” come dichiara apertamente la sinossi proposta da Loznitsa. La regione del Donbass è per il regista ucraino un set in cui, facendosi ispirare da una serie di fatti realmente accaduti, si succedono sequenze di patetico esercizio democratico in forma di farsa, linciaggi di soldati esposti al pubblico ludibrio ad uso e consumo dei cellulari della gente che passa, gang di ribelli in uniforme che rapiscono civili e li obbligano a pagare riscatti in forma di donazioni per la causa della libertà, uomini reclutati per l’esercito a forza di minacce… Loznitsa persegue il suo sguardo istintivamente distaccato, animando lunghe scene in pianosequenza che architettano la stupidità umana come coreografia dello sconfinamento tra ragione e istinto. Donbass applica l’approccio passivo dell’osservazione attonita e ironica della sua più recente produzione documentaria (Austerlitz e Victory Day) alla profusione narrativa del suo cinema di finzione (My Joy, Anime nella nebbia, A Gentle Creature).

La linea di demarcazione segna il passaggio tra la frontalità osservativa della posa in opera documentaria, in cui Loznitsa lascia che lo sguardo contemplativo si schianti contro l’assurdità della realtà, e la coreografia dei pianisequenza in cui si adopera nel versante finzionale del suo cinema: Donbass sembra stazionare proprio su questa linea di demarcazione, trovando nella posa in opera grottesca degli eventi storici, la definizione liminare della sragione umana. La spinta in avanti della macchina da presa, che attraversa lo spazio invece di osservarlo a distanza, diventa la chiave di accesso al rapporto tra la verità e la sua maschera, tra la Storia e la sua perversione, tra la libertà e la sopraffazione, tra la democrazia e la corruzione, tra la giustizia e la vendetta. Il principio concentrazionario che presiede al suo cinema documentario, sempre attento a contemplare situazioni perimetrate nell’azzeramento dell’umanità (da The Factory sino a Austerlitz e Victory Day), si traduce qui in uno scavalcamento di campo che pone la finzione della verità storica a contatto diretto con la sua assurda violenza e con l’annientamento d’umanità altrimenti contemplato a distanza. Viene meno l’afflato rappresentativo di film come My Joy, la profondità di campo umanistica di Anime nella nebbia e la stratificazione metaforica in cui si risolveva A Gentle Creature. Resta l’attonita tensione di una realtà messa in scena in tutta la sua effettiva assurdità.