Sorry We Missed You di Ken Loach e l’appassionata prevedibilità del cinema militante

Ricky è stanco di una vita di lavori sfiancanti e precari, di dover rendere conto alle direttive e a gli ordini del padrone di turno. Sua moglie Abby si ammazza di fatica, assiste anziani e malati per poche sterline, attraversando in lungo e in largo la città in cui vivono, una Newcastle grigia e inospitale. Hanno due figli: Seb, adolescente inquieto con la passione per i graffiti più che per la scuola, e Liza Jane, allegra e positiva, sempre pronta a sostenere il padre e a farlo sorridere. Un giorno Ricky decide di fare una scelta apparentemente di libertà. Entra in un franchising di consegne a domicilio, compra a rate un furgone, vende la macchina della moglie per permettersi la quota di ingresso e diventa – nelle parole del suo burbero coordinatore – padrone del proprio destino. Ma quella che sembrava una mossa verso l’indipendenza si rivela ben presto il fantasma di un’altra schiavitù, fatta di turni massacranti in costante competizione con i colleghi, di scadenze pressanti, di rischi assicurativi e di nessuna protezione sindacale. Sorry We Missed You, il nuovo film di Ken Loach sceneggiato dal collaboratore di sempre Paul Laverty, è l’ennesima variante sui temi cari all’autore britannico: il mondo del lavoro sempre più darwinista e feroce, l’assenza di una rete sociale che includa diritti e pratichi solidarietà, la rappresentazione della famiglia come unica ancora di salvezza, messa a dura prova da una vita di sfruttamento padronale che, semplicemente, ha assunto nuove forme senza mutare la propria ferocia di classe.

Tutto vero, tutto giusto: anche qui colpisce l’affetto emotivo e politico verso gli umili e i non protetti, la passione morale con cui Loach mette in scena un’ordinaria storia di disperazione. A Ricky succede un guaio dietro l’altro: il bisogno di libertà, ravvivato dal desiderio di poter ottenere un mutuo per l’acquisto di una casa per sé e per i suoi cari, si tramuta in una esperienza di ricatto sociale, in un legaccio che soffoca, in un gorgo in cui si sprofonda sempre più. Il privato – perché per Loach il privato è sempre politico – si sfalda per l’ingerenza che un lavoro disumano impone alla coppia, gli affetti traballano sotto i colpi di una società ontologicamente immorale, con ritmi e scadenze disumane e disumanizzanti, pronte a togliere al quotidiano fiato e tempo. Loach racconta una realtà lavorativa contemporanea – ora che le merci si muovono liberamente, il cottimo della consegna rappresenta una nuova e penalizzante stortura dei metodi di sfruttamento – con lo sguardo del vecchio sindacalista, affronta problemi nuovi con strumenti un po’ arrugginiti e canonici, limitandosi a sapere di essere dalla parte giusta. Certo, le ingiustizie che nel mondo si ripetono sempre uguali (e colpiscono sempre gli stessi) sembrano solidificare e giustificare un approccio schematico ma coerente, ma il cinema di Loach rischia così di ripetersi sempre uguale, appassionato e prevedibile, didascalico e comiziante, incapace di aprirsi a nuove domande per privilegiare un desiderio inestinguibile di denuncia. Un cinema militante che rifiuta ogni scarto o deviazione, abdica alla sorpresa fino ad apparire consumato dal suo voler rimanere, a qualsiasi costo, fedele a se stesso e al proprio pubblico di riferimento. Ormai, i film di Loach – sempre classici nella struttura e asciutti nello stile – sono come i vecchi classici cantati alla fine di un concerto, quando gli appassionati chiedono e ricevono gratificazione: un riconoscimento collettivo di un sentimento politico, l’idea di un senso di comunità, una chiamata solidale alle armi che rischia di essere però fin troppo prevedibile e rassicurante.