Su Chili Cattive acque: il cinema civile secondo Todd Haynes

Il cinema di Todd Haynes segue un percorso etico costante di conciliazione tra mondo e sogno. Tutti i suoi personaggi sono in cerca di un’identità, la trovano e tentano di affermarla in un mondo che la respinge o la nega. Poison (1991) racconta i sogni di liberazione di un bambino, di uno scienziato e di un prigioniero; Safe (1995) racconta i tentativi affannosi di Carol di convivere con una malattia invalidante; Velvet Goldmine (1998) racconta i sogni libertari di un giovane giornalista che si identifica con una star del glam rock molto simile a David Bowie; Lontano dal paradiso (2002) racconta di amori eccentrici, omosessuali e interraziali, nell’America puritana degli anni Cinquanta; Io non sono qui (2007) racconta i sogni di sei personaggi, ognuno dei quali rappresenta un aspetto diverso della vita e della musica di Bob Dylan; Carol (2015) racconta di due donne che ancora negli anni Cinquanta sognano di coronare il loro amore; La stanza delle meraviglie (2017) racconta di due bambini sordi che, in due epoche diverse, sognano una vita diversa.

 

 

Il recentissimo Cattive acque (2019), ispirandosi all’articolo del New York Times Magazine del 2016 The Lawyer Who Became DuPont’s Worst Nightmare di Nathaniel Rich, racconta la storia vera di Robert Bilott, avvocato societario specializzatosi nella difesa di aziende chimiche, al quale nel 1998 un agricoltore di Parkersburg, in West Virginia, chiede di indagare sul nesso tra la presenza di un impianto dell’azienda chimica DuPont nei pressi della sua fattoria e i tumori e le malformazioni che affliggono le sue mucche. Bilott scopre che da decenni la DuPont smaltisce indisturbata nei corsi d’acqua della zona grandi quantità di acido perfluoroottanoico, mettendo a rischio la salute e la vita della popolazione locale e, commercializzando altrettanto indisturbata il teflon, anche quella della popolazione globale. Qui si innesca una vera e propria lotta tra Davide, sempre più solo in un mondo che non capisce il senso delle sue azioni, e Golia, il moloch industriale che ha a disposizione conoscenze e ricchezze sufficienti a ostacolare le indagini dell’avvocato per decenni. Rinunciando al glamour e all’estetica del melodramma cui ci ha abituato per vent’anni, ma senza indulgere agli stereotipi del cinema sulle class action stile Erin Brockovich – Forte come la verità (2000) di Steven Soderbergh, Haynes scava senza reticenze nel sogno di giustizia di Bilott. Ce ne mostra le resistenze, poi la caparbietà, poi i rischi. Soprattutto ci mostra le sofferenze cui quel sogno, che pian piano diventa totalizzante ed esclusivo, condanna l’avvocato sul versante familiare e poi più in generale psicologico. Mark Ruffalo dà un’interpretazione magistrale di un everyman che scopre dentro di sé un eroe e paga un pesantissimo scotto per la hybris di dare corso al suo sogno eroico. Anne Hathaway e Tim Robbins sono altrettanto intensi nel dare corpo alla moglie e al titolare dell’avvocato, prima giudicanti, diffidenti e delusi, poi finalmente consapevoli della grandezza e del sacrificio di Bilott. Il risultato è un film livido, a tratti angoscioso, che rievoca le atmosfere del cinema americano della paranoia degli anni Settanta e ci fa presagire l’enormità e la pervasività degli ingranaggi di potere e interesse che sorreggono il mondo in cui viviamo.