C’era una volta l’horror: su Chili Scary Stories to Tell in the Dark di André Øvredal

In Italia non erano in molti a conoscere la raccolta di racconti Scary Stories to tell in the Dark, pubblicata originariamente da Alvin Schwartz in tre volumi usciti fra il 1981 e il 1991 (e di recente ripresa anche da noi grazie ai tipi di DeA Planeta Libri). Viceversa in America è da tempo considerata una delle antologie più disturbanti e violente nell’ambito della narrativa per ragazzi, complici la filiazione dalla tradizione dei racconti popolari (che, si sa, non vanno mai troppo per il sottile in quanto a toni oscuri) e gli evocativi disegni di Stephen Gammell: materiale perfetto, insomma, per un bookworm come Guillermo del Toro, inizialmente in predicato di dirigere il film e poi passato dietro le quinte, per lasciare spazio a André Øvredal. Che è un bel passaggio di consegne, considerato quanto il regista norvegese, autore degli eccellenti The Troll Hunter e Autopsy, si fosse già dimostrato capace di lavorare bene sul confine tra realtà e finzione, scavando nelle pieghe della tradizione popolare per esaltarne le possibilità thriller in una forma moderna e affabulatoria. Il film che ne è derivato, non a caso, non segue la più prevedibile struttura a episodi, ma rende gli stessi una costola di una storyline principale che mantiene sempre la centralità del racconto.

 

 

L’ambientazione è nel seminale 1968 de La notte dei morti viventi (chiamato esplicitamente in causa con una puntuale citazione) e chiarisce la natura autoconsapevole dell’operazione in merito alle coordinate di genere. Lo sfondo del conflitto in Vietnam (i personaggi devono vedersela anche con la coscrizione obbligatoria) alimenta al contempo quella voglia costante di Øvredal di lavorare sempre sul limite tra orrore ancestrale e paure radicate nella vita, in un gioco di rispecchiamenti dove la fiaba diventa effetto della realtà e allo stesso tempo la rimodella. Partendo da questi presupposti, Scary Stories to Tell in the Dark cerca di recuperare il piacere della visione di un horror molto classico nella forma, con un gruppo di giovanissimi protagonisti alle prese con un libro che scrive da sé le “storie da leggere del buio”, rompendo il velo tra fiction e eventi reali. Il tutto è accompagnato da un piacere squisitamente deltoriano per il coté scenografico di natura squisitamente gotica, che nel rimpallo con l’estetica dei sixties crea un accumulo segnico che è l’elemento più interessante dell’operazione. Sebbene il film evidenzi in maniera abbastanza marcata la propria natura commerciale attraverso un ritmo fin troppo spedito, un finale facilmente consolatorio e il solito uso degli sbalzi sonori, tipici dell’horror mainstream attuale, è infatti la sua stratificazione a permettergli di sedimentarsi dopo la visione.

 

 

La natura “moderna” di un’operazione che esibisce la propria intima relazione con il passato e il vintage, insomma, si dimostra vincente proprio per il modo con cui rilancia e intreccia i piani narrativi, mentre riflette consapevolmente sui meccanismi di genere (i ragazzi che definiscono ripetutamente “vecchie” le storie raccontate dal libro). La familiarità degli elementi messi in campo è così rivitalizzata da uno sguardo autoriale, dove la confusione tra il vero e il falso finisce per riflettere tematiche vicine alla società moderna, dove la dimensione pubblica e quella privata si sovrappongono sempre più dolorosamente. Nelle parole di Øvredal, infatti, “il film è incentrato sulle falsità e su come bugie e rumor possono dare vita a una falsa realtà”. Non a caso, fulcro dell’intreccio si rivelerà proprio la verità sul “mostro” di turno e il modo in cui la sua riconoscibilità pubblica è stata compromessa dalla cattiva fama generata dalla “narrazione” che lo circonda. Le sofferenze private dei giovani protagonisti outsider si intrecciano a doppio filo con questa tematica che crea un possibile ponte fra gli estremi, in ossequio alla logica, ancora una volta deltoriana, del mostro che è uomo e dell’uomo che genera i suoi stessi fantasmi. In questo senso assume una particolare pregnanza anche il bel florilegio di creature mostruose, capaci di coprire sia la componente “atmosferica” delle storie di fantasmi, che quella più carnografica con corpi deformati e di tattile fisicità, complici le capacità straordinarie degli ormai celebri Javier Botet e Troy James. Il finale lascia comunque aperta la porta a future prosecuzioni, confermando l’impressione di un prodotto industriale, comunque nobilitato dalla capacità e dall’intelligenza dalle menti dei suoi artefici.