Dark Night e l’impalpabilità della ferocia

La sera del 19 luglio 2012, il ventiquattrenne James Holmes è entrato in una sala cinematografica di Aurora in Colorado dove proiettavano Il cavaliere oscuro – Il ritorno e ha fatto fuoco sulla folla che gremiva il cinema, uccidendo dodici persone e ferendone settanta. Questo spaventoso fatto di sangue è solamente uno dei numerosi massacri avvenuti in luoghi pubblici che hanno insanguinato l’America. Scuole, cinema, centri commerciali: il cuore del sistema colpito a freddo, in maniera asettica e inafferrabile, anche grazie alla facilità con cui ogni persona – giovani compresi – può entrare in possesso di un’arma da fuoco. Sono proprio l’impalpabilità di questi gesti feroci – la loro spaventosa quotidianità – e la sensazione di smarrimento che si prova davanti a un nemico inconoscibile, perché parte integrante del tessuto sociale americano e non banalmente identificabile come “altro da sé”, a creare lo stupore panico che sembra alla base del film che Tim Sutton ha diretto riflettendo e scomponendo il massacro di Aurora.

Dark Night, seguendo a suo modo il modello esemplare di Elephant di Gus Van Sant, sceglie la strada dell’astrazione e dello straniamento, vuole elevarsi dalla cronaca per assumere, con tono apparentemente dimesso ma invece controllatissimo, lo stigma del simbolico. Il film inizia con l’inquadratura degli occhi bistrati di una ragazza, lo sguardo rivolto a quelle che sembrano le luci bianche di uno schermo e che presto virano nel rosso e nel blu della sirena di una volante di polizia. Bianco, rosso, blu: i colori della bandiera americana (che infatti tornano nella canottiera “patriottica” della giovane) tesi a unire idealmente in una singola inquadratura spettacolo e crimine, arte e morte. Sutton spezza il realismo della narrazione inclinando gli assi del racconto – la televisione, accesa in ogni casa, racconta il vero massacro di Aurora, creando un cortocircuito temporale con la strage fiction ancora da venire – e mescolando lunghe riprese ipnotiche a scene paradocumentaristiche. Il risultato è un ritratto sognante e allucinato di una suburbia in cui convivono giovani senza speranza e reduci in terapia, case ordinate e comunità disgregate: un luogo familiare e impersonale dove tutto – letteralmente – sembra sul punto di esplodere. La fotografia di Hélène Louvart (già collaboratrice di Wenders in Pina e autrice della fotografia dei film di Alice Rohrwacher) è fluida e cangiante, come se il mondo fosse una superficie lucida che nasconde un cuore opaco difficile da percepire. Il lavoro sul suono raddoppia quello sull’immagine: i rumori si trasformano, indefiniti tra ambiente urbano e sottofondo naturale, mentre la musica lo-fi evoca una perduta malinconia. In una scena quasi sinestetica, il futuro killer si prova la maschera di Batman (rimando diretto al Cavaliere oscuro) mentre un notiziario tv occhieggia sullo sfondo e una dolente canzone si spande nell’aria: quando il ragazzo si guarda nello specchio, l’ansia rarefatta di una quotidianità circolare sembra rapprendersi, pronta a presentare il conto. Dark Night racconta una giornata sulla soglia inconsapevole dell’inferno – e ha l’intelligenza di fermarsi subito prima che l’inferno si manifesti, quasi a salvaguardare la sacralità del luogo-cinema, profanato dall’omicida – con una pulizia stilistica talmente limpida da sfiorare il manierismo, con un controllo talmente preciso da lasciare un dubbio di eccessiva programmaticità. Quello di Sutton resta però uno sguardo non convenzionale e misterioso (come già dimostrato nei precedenti Pavilion e Memphis), orgogliosamente refrattario alle patinature estetizzanti di certo cinema indie che inquinavano, per restare a un film sullo stesso tema, Polytechnique di Denis Villeneuve.