Félicité, da Kinshasa la madre coraggio di Alain Gomis

Ci sono film che meriterebbero di più. Più di quello che riescono ad essere, più di quello che riescono a dare, a fare.  Félicité  (in Concorso alla Berlinale) è uno di questi: l’istinto di Alain Gomis è ancora una volta forte, autentico, attraversato da un sentimento della vita, dei personaggi, della scena che è vibrante di emozioni pure e idealità sentite, ma il risultato si dissolve nella frammentazione di una confusione che non trova la strada per esprimersi, aggrappato alla possanza fisica e materiale della sua protagonista, senza che questa riesca a trascendere davvero la concretezza del suo dramma immanente. Félicité è il nome di una madre coraggio di Kinshasa, prigioniera della libertà conquistata per spirito di indipendenza da un marito che ha voluto lasciare al suo nuovo matrimonio. Lei vive da sola, crescendo un figlio adolescente che ora giace in un letto d’ospedale, una gamba rotta per un incidente motociclistico destinata ad essere amputata se lei non trova in tempo i soldi per pagare l’intervento chirurgico necessario. Félicité è una cantante, ogni sera dà corpo alla sua voce in un bar di Kinshasa, mentre uomini e donne ballano, bevono ridono in una tribalità socializzata nella trasfusione metropolitana di risonanze arcaiche.

 

Il suo approccio alla vita risponde a una forza della natura che le viene dall’orgoglio, dalla determinazione, dalla padronanza della sua libertà che però cozza contro le strutture di un vivere sociale necessario. Gli intoppi della quotidianità la marcano a vista, gravando su di lei come un destino infame, come il frigorifero che una mattina smette di funzionare, incidente domestico che preannuncia l’incidente stradale del figlio, che ora giace catatonico in un letto d’ospedale. Al suo fianco c’è Tabu, un omone sornione e dolce, che la sera si ubriaca mentre Félicité canta e infastidisce tutti, innamorato di lei senza pretese stabili, che la affianca e la aiuta e la sostiene senza pesare su di lei. Il suo è un segno positivo, che aiuterà la donna a ritrovare fiducia anche quando tutto attorno a lei crollerà: i soldi per l’operazione non bastano, il suo boss la licenzia, il figlio perde la gamba… Alain Gomis descrive questo piccolo calvario quotidiano attraversando le strade di Kinshasa dietro la sua protagonista, ma chiede troppo al suo film, lo carica di attese stilistiche, di formulazioni improprie: stringe (troppo) la camera su piani di pedinamento alla Dardenne nella prima parte, mentre Félicité è alla disperata ricerca dei soldi per l’intervento, apre diversioni simboliche consegnando la sua protagonista a reiterati, scomposti, sipari onirici nella foresta, trasformandola in una sorta di divinità arcaica mentre un coro e un’orchestra di neri offrono sonorità classiche, insiste troppo nel simbolismo tribale delle orgiastiche notti da bar… Ancor più che nel precedente Aujourd’hui  (Tey, 2012, in Concorso qui alla Berlinale), Alain Gomis insiste troppo sullo schema del suo film, questa volta cercando una soluzione nella frammentazione ma illudendola nella reiterazione che si trasforma in ripetitività e occupa l’istinto visionario e libero del suo film. Ed è un peccato perché, per l’appunto, questo è uno di quei film che meriterebbero di più…