Flagranza e distanza di Una vita da Maupassant su RaiPlay

Une-vieL’assetto filmico è in flagranza, funziona prima di tutto come un dispositivo atto a cogliere il riecheggiare degli stati d’animo della protagonista. Del resto, quello che sembra interessare davvero a Stéphane Brizé in Une vie è mantenere la giusta distanza da Jeanne, la protagonista di questo dramma femminile ottocentesco tratto da Maupassant. Una distanza che ne preservi la purezza, l’illusione presto infranta di appartenere a un mondo in cui tutto è in ordine e ogni cosa accadrà secondo natura, ovvero seminando con amore e attendendo i frutti di questa disposizione d’animo. Proprio come le insegna il padre nella sequenza iniziale del film, bellissima nel suo lussureggiare di vita, già scritta da Brizé con quella cifra visiva che poi per tutto il film lo porterà a guardare Jeanne sfiorandola da lontano, preferendo sempre il taglio prospettico, a cogliere più il profilo e il dettaglio da incidere nell’ovale di un cammeo, che l’immagine piena da incorniciare nella frontalità di un ritratto. Une vie è un film in cui senti il lavoro in focale lunga sul personaggio, condotto con la sincerità di una ricerca interiore che attiene prima di tutto la sua collocazione di regista rispetto al dramma della protagonista.

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Se in La legge del mercato Brizé poneva le scelte morali del suo protagonista nella complessità di uno scenario sociale dal quale scaturivano le sue determinazioni, nel raccontare la vita di questa nobildonna francese, che sfiorisce all’ombra di un marito insensibile e di un figlio sconsiderato, il regista preferisce l’astrazione di un sentimento della vita che appartiene esclusivamente a Jeanne e la lascia progressivamente sola nello svolgersi fatale del dramma. Il processo di progressivo smarrimento della felicità iniziale di Jeanne è un percorso che Brizé segue all’impronta, senza elaborare una vera e propria struttura drammaturgica complessiva, un quadro d’epoca da cui far scaturire le ragioni di un discorso sulla femminilità nobiliare ottocentesca. Ciò che sta in questo film è piuttosto la flagranza di un rapporto tra la protagonista e i suoi sentimenti, che induce il regista a tagliare tutto il superfluo rispetto all’immediatezza del suo rapporto con lei. L’esterno notte in cui Brizé cala Jeanne, sconvolta dal dolore per aver scoperto la tresca del marito con la sua cameriera, in fuga nel giardino come una macchia bianca dispersa nel vento e nel buio, corrisponde all’intera disposizione filmica del regista, totalmente affidata a una sensibilità dello sguardo che non lascia spazio alla drammaturgia. Come nel finale del 6resto, conseguente allo smarrimento estremo di Jeanne abbandonata e in miseria, che restituisce alle sua braccia quell’anelito di vita dal quale la abbiamo vista sorgere nell’incipit e si ferma lì, nell’imperfezione di uno zoom a stringere, senza sentire il bisogno di aggiungere altro. Brizé mostra di conoscere ciò che basta a fare un film.