Fortunata e i cliché esagerati

Jasmine Trinca è la miglior attrice del concorso del Certain Regard di Cannes 2017. Lo ha stabilito la giuria presiedita da Uma Thurman, che in Fortunata deve aver visto riconfermato lo stereotipo dell’italianità borgatara e sempre sopra le righe, ormai immagine datata e artefatta del cinema italiano all’estero. E gli stereotipi, il nuovo film di Sergio Castellitto li usa tutti, anzi, li moltiplica generosamente, attingendo a piene mani da una storia (il film è scritto da Margaret Mazzantini) che pretende di calarsi nella realtà durissima della periferia e raccontarla dall’alto del suo sguardo altoborghese. E non è questione differenze culturali, ma di scorrettezza morale di chi vuole fare cinema popolare come fosse fantascienza, con parole di un certo tipo, costumi, colori e scenografie ormai entrate nell’immaginario, ad ospitare le vite di personaggi sfortunati, alienati dalla società, malati, che hanno subito (tutti) traumi infantili, che ancora si portano dietro e non vedono l’ora di sbatterli in faccia ad altri come loro.  Cliché narrativi, prima ancora che di messa in scena.

 

Fortunata è una donna sempre in affanno. Corre di casa in casa come parrucchiera a domicilio, trasportando le borse con i ferri del mestiere. È agosto, c’è poca gente in giro, l’aria è torrida e la sua bambina di otto anni non va a scuola e la segue e la tormenta con il suo disagio di una vita davvero soffocante. Nel frattempo deve sostenere il divorzio dal marito violento, i colloqui con lo psicologo infantile e una serie infinita di sventure, perché la banca non le concede il prestito per aprie il suo negozio, e così ricorre agli strozzini cinesi, nuovi padroni del quartiere. Non una storia particolarmente originale, ma le storie non lo devono essere per forza. Basterebbe, a renderle uniche, un progetto coerente, un’idea fondata su radici emotive, strutturali e formali solide e profonde. Tutte cose che mancano a questo film, che, invece, delega all’ambizione di stupire, commuovere, indignare, sorprendere ogni tipo di rapporto con lo spettatore. E poi ci sono la dipendenza ai riferimenti del passato (tra Pasolini e Ferreri, si dice) e la macchina da presa sempre in movimento, che si lascia affascinare dai luoghi di una periferia così stratificata, il paesaggio dai colori spenti dal sole estivo, le strade trascurate, i palazzi e le rovine antiche che spuntano e circondano i protagonisti. La scommessa del gioco, la sfida contro il destino, il desiderio di fortuna e di cambiamento si infangono in un finale raffazzonato e involuto, Come dire “tanto rumore per nulla”, perché le cose tornano esattamente come sono iniziate, solo con più sofferenza e patetiche rivelazioni in più. C’è, però, molta poesia dolente nei personaggi di Chicano (un bravo Alessandro Borghi) e della madre malata di Alzheimer (Hanna Schygulla), ex attrice di teatro, ossessionata da Antigone e felice, a suo modo, di non ricordare più nulla. Ma il fatto è che ogni personaggio meriterebbe un film, perché si porta dietro troppa materia, difficile, poi, da sviluppare o contenere in una forma. E questo non vuol dire che l’eccesso sia scelta sempra sbagliata, anzi, ma pretende cure e sacrifici difficili, rielaborazioni ed equilibri tra dettagli e macroscene, tra il tono intimo e quello da melodramma infuocato, tra ralenti patinati e inquadrature stropicciate. A mancare, soprattutto, fin dalla scrittura, è il senso della misura, per non rischiare di confondere la generosità con la confusione.