Fughe dal destino: Il lago delle oche selvatiche di Diao Yi’nan

Linee di fuga lungo traiettorie che si avvitano sul destino: è la trama cui sono condannati i protagonisti dei film di Diao Yi’nan, cinese a tinte noir che, dopo Night Train (al Certain Regard 2007) e Fuochi d’artificio in pieno giorno (Black Coal, Orso d’Oro a Berlino 2014), arriva al Concorso di Cannes 72 con The Wild Goose Lake (Nan fang che zhan de ju hui). Ed è ancora un film che si spinge nella deriva esistenziale di personaggi chiusi in un sentimento separato del tempo, ancora un lavoro sulla definizione di uno spazio reale, quasi topografico, in cui agiscono figure cristallizzate nel loro destino. Se però nei due film precedenti Diao Yi’nan aveva seguito traiettorie più lineari, in The Wild Goose Lake preferisce immergere la scena in una dimensione circolare, che si svolge lungo le rive di un grande lago, attorno al quale si sviluppa la fuga di un gangster braccato tanto dalla polizia quanto dagli sgherri delle bande rivali. Accanto a lui si muove come un’ombra ambigua una giovane prostituta (a interpretarla è Lun-Mei Kwei, già protagonista del precedente film del regista), che lo guida verso una impossibile via d’uscita, mentre è costretta a fare un doppio o forse triplo gioco che la vede sempre più determinata e smarrita. La polizia ha infatti messo una taglia sulla testa del fuggitivo e l’uomo, che vorrebbe dare alla moglie modo di tradirlo per incassare il denaro, è costretto a muoverso come un fantasma in uno spazio che pullula di nemici.

Quella che si configura come una classica caccia tragica serve insomma a Diao Yi’nan come tessitura di uno scenario vischioso, in cui lo spazio si sviluppa come un habitat tanto connaturato ai personaggi quanto capace di inghiottirli. Questa volta, però, il regista si fa prendere la mano dalla progettualità stilistica che persegue, stringendo il film in una raffigurazione estremamente stilizzata della realtà, imbevuta di configurazioni noir che intingono nella tradizione occidentale la configurazione complessiva della scena. L’idea dichiarata è infatti quella di contaminare questo universo di riferimento con la tradizione del jianghu, che nella letteratura cinese rappresenta l’insieme del mondo parallelo rispetto alla nobiltà imperiale, quello dei banditi, dei cavalieri, della gente semplice che vive ai margini della società costituita. Ed è in effetti nella rappresentazione di questo sottobosco umano che il film trova il suo habitat, nella mappatura dei grandi caseggiati, dei mercati popolari, degli spiazzi suburbani paludosi, dei capannoni, degli agglomerati di baracche. E’ in questa dimensione che si muovono, come ombre erranti, i due protagonisti e la pletora di inseguitori che dà loro la caccia, in un gioco di reiterati tradimenti, scontri, ferimenti, uccisioni, risolto ogni volta da Diao Yinan con una formulazione stilistica tanto alta quanto impalpabile. Perché poi al film manca, in sostanza, la capacità di tenere insieme gli elementi, si resta affascinati dalla successione di scene di altissima fattura che però non trovano mai un’armonia complessiva. Anche rispetto ai suoi due lavori precedenti, questa volta a Diao Yi’nan manca la capacità di creare un umore unico, uno stato d’animo in cui trovarsi immersi assieme ai personaggi.