Gli invisibili – Time Out of Mind. Stare nella propria colpa

vereenL’istinto nel cinema di Oren Moverman è quello di gestire la colpa, di elaborare il senso di inadeguatezza dei suoi personaggi per ciò in cui sono calati: era così in The Messenger, dove si trattava di lavorare dall’interno sull’elaborazione di quel lutto portato come una fatalità alle vedove di guerra; era così in Rampart, dove Moverman scavava senza mezzi termini nella odiosa contraddittorietà del marcio di cui il protagonista poliziotto si faceva testimone e giustiziere come fosse un boogeyman della buona società; ed è così per l’homeless di Time Out of Mind, reso per il nostro mercato con un più banale Gli invisibili. Ancor più che nei film precedenti, qui Moverman insiste sulla matrice introspettiva della rappresentazione, elaborando un film che – come evocato nel gioco di parole del titolo originale – è un percorso mentale colto in galleggiamento tra il “time out” dalla propria vita, chiamato da un uomo che ha fatto troppi sbagli, e il suo essere “fuori”, di testa ma anche di spirito, assente a se stesso e al mondo. La performance di Richard Gere è ovviamente al primo posto in cartellone, e va detto che la sua figura non fa certo danno al film, perché, un po’ come accadeva col Woody Harrelson di Rampart, Moverman è regista capace di immergere il corpo dei suoi attori, la loro forte figura, nel corpo di un filmare che è sempre pregnante, prioritario, tarato su una dimensione del visibile alla quale corrisponde una razionalità diretta e lucida, per quanto confusionale e emotiva possa essere.

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Time Out of Mind, del resto, inizia come una sinfonia sonora e visiva di grande intensità: tutta la prima mezz’ora sta totalmente nella straordinaria dinamica di una stratificazione filmica di livelli visivi e sonori molteplici, che lavorano sul senso di estraniazione e sbandamento del protagonista, tanto quanto sulla creazione di un punto di osservazione esterno a lui, che colloca lo spettatore in una dimensione percettimindva straniante e fastidiosa in grado di metterlo in relazione con la sua alterità giudicante. Qui il film è quasi un oggetto sperimentale (da vedere rigorosamente in originale), tutto un gioco di scollamento tra sonorità d’interno e scene d’esterno, che sovrasta la struttura da dramma sociale alla quale poi il film si affida nel momento in cui il protagonista finisce nel girone dei servizi sociali, dei dormitori coi loro regolamenti, dei legami solidi e labili con i compagni di sventura. Il salto dal dramma sociale al melodramma familiare, segnato dalla figura della figlia abbandonata, ignorata e ritrovata, che fa valere il suo rancore sul padre assente, è conseguente alla natura dinamica di un personaggio che chiaramente ha le sue esigenze narrative. Qui il film perde parte della sua forza, per incedere, forse più dei precedenti film di Moverman, in una scansione più classica. Ma ciò non toglie che Time Out of Mind resti un film intriso di idee visive e sonore potenti, capace di elaborare una traccia figurativa forte. Moverman è regista che scandisce sempre i suoi film sino in fondo, pensandoli come oggetti dinamici tanto sotto il profilo visivo e sonoro, quanto sotto quello narrativo.