Hole-L’abisso: come diffidare dalle imitazioni con il terrore di ogni irriconoscibile declinazione dell’altro

È compito dell’horror non più immaginare mondi, scardinare tabù o costituire il grimaldello per innescare critiche sociali profonde (contro la guerra, contro il concetto tradizionale di famiglia, contro la società dei consumi, contro molte altre cose), ma solo suggerire e con una certa naturale e forse non deprecabile superficialità descrivere, colorare o decolorare ambienti, stati d’animo. A questa categoria appartiene con una sua dignità Hole-L’abisso, dell’irlandese Lee Cronin. Un film che nonostante una certa fretta – pare che questi film non debbano sforare i 90 canonici minuti – conserva interessanti risvolti che lo fanno appartenere a quella categoria di opere nelle quali il tema di fondo costituisce lo spunto per una sbirciatina dentro gli strati della coscienza. Al contempo, nonostante l’impazienza della narrazione, possiede una sua originalità che lo distingue da molto cinema horror che rimestando a volte confusamente nell’immaginario di questi anni, ha dato vita a dei prodotti spesso simili e poco distinguibili l’uno dall’altro. Hole è un buco nella foresta, ma è soprattutto un abisso della coscienza dove non è più possibile riconoscere il vero dal falso. Contrariamente ad una interpretazione che condurrebbe a farlo sembrare un racconto sull’inconscio rifiuto del ruolo materno, che forse pure c’è, ma non così spiccato come potrebbe sembrare, Hole-L’abisso suggerisce piuttosto un velato orrore che nasce dalla paura di vivere in un mondo di replicanti il cui originario imprinting, che costituisce il marchio indelebile della riconoscibilità, viene cancellato e sostituito da una copia identica e quasi irriconoscibile. È solo l’istinto materno a non riconoscere il figlio dopo le molte vicissitudini e così il tema della maternità diventa risolutivo piuttosto che argomento strategico di narrazione e tema fondante del film.

 

 

In questa prospettiva è invece il concetto di riconoscibilità a diventare, o meglio, che potrebbe diventare, dramma collettivo e piaga sociale e appartenere a quelle specie di catastrofi silenziose che così argutamente José Saramago ci ha raccontato nei suoi romanzi. Ma Cronin minimizza, riduce e racchiude la sua storia, non priva di una certa suspense, all’interno di questa minuscola comunità che abita ai confini del bosco. In fondo non è né la paura, né la suspense ad interessarlo, quanto piuttosto costruire un sottile velo di inquietudine che si fa sempre più consistente per rivelare identità sconosciute e invisibili. La sceneggiatura delega al personaggio di Sarah, madre sola e solitaria, il carico di ogni responsabilità del difficile processo di disconoscimento che si fa ancora più complicato nel suo ruolo di madre. Processo già finito male, nelle vicinanze, per Noreen che, vittima della stessa angoscia per il figlio, ha perso la ragione, ma ha maturato una raffinata sensibilità per percepire le differenze tra l’originale e la più che perfetta copia. Il buco nella foresta che si apre inghiottendo tutto come una sabbia mobile attiva, sembra ingoiare gli strati della coscienza e solo un’immersione in questa sconosciuta dimensione può offrire risposte che, giustamente, Cronin lascia in bilico tra tangibile verità e immaginifica proiezione della coscienza profonda.

 

 

Non è nuovo il cinema horror ad indagare nei rapporti madre-figli e tra i titoli si annoverano molte buone cose anche negli ultimi anni, ma qui il film di Cronin ci rimanda ad altre atmosfere, ad altri significanti e il suo diventa un film sulla trasformazione, sulla mutazione profonda e sulla paura, non peregrina, che questa alterazione diventi sostituzione della persona amata (figlio, compagna/o o qualsiasi altro oggetto d’amore) e non sia possibile ritrovare quella comunanza, quella profonda complicità, quella necessaria riconoscibilità di cui abbiamo bisogno per quell’affidamento nell’altro che si fa essenziale per non sprofondare nella solitudine. Non è un caso che Sarah abbia la certezza dei suoi sospetti proprio quando propone al falso Cristopher il loro giochino dell’uno, due e tre e lui non sappia rispondere. In termini più immediati Hole-L’abisso si pone sulla scia di quei film che in questi anni, indagando su un immaginario personale, piuttosto che immediatamente collettivo – anche se siamo convinti che giocoforza ciò che è personale, finisce con il diventare prima o poi collettivo –  hanno offerto l’immagine alle paure che trovano origine in disagio che ha dell’incomprensibile, in quel benessere afflitto da un vuoto che non si colma, anzi collassa continuamente come il buco della foresta del film. Un cinema che non può fare a meno del genere horror per esprimere il suo potenziale e che si fa a volte accattivante anche nella sua forma estetica come accade in questa occasione in cui la dominazione di una certa monocromia insistita costituisce anche soluzione visiva interessante. Un cinema che con Hole-L’abisso o già  o ancora il non del tutto risolto, ma non per questo trascurabile Us-Noi o l’australiano Babadook ci ha insegnato a diffidare dalle imitazioni e ad avere un intimo terrore di ogni declinazione dell’altro. La profonda irriconoscibilità destabilizza le esistenze e disegna futuri inquietanti e misteri non semplici da risolvere e archiviare nell’immaginario.