Il delitto Mattarella di Aurelio Grimaldi e la scomposizione della narrazione

È vischioso il terreno su cui si muove Il delitto Mattarella, ultimo lungometraggio di Aurelio Grimaldi tratto dal suo omonimo libro edito da Castelvecchi. Esito di un lungo e appassionato lavoro di scavo a partire dai documenti della sentenza del 1995, che indicò come mandante la cupola di Cosa Nostra, ma senza identificare gli esecutori, Il delitto Mattarella segue con fermezza la pista neofascista, collegandosi alle indagini della riapertura del caso nel 2018: se da una parte sceglie di legarsi alle dinamiche del film di mafia, dall’altra si espone alle complessità e ai rischi del cinema di impegno civile. È un ibrido costretto a fare i conti con le matrici di un genere rimasticato in un lungo e in largo anche da tanta serialità televisiva, schiacciato di conseguenza da soluzioni stereotipate a cui non rinuncia (l’uso del ralenty nelle scene degli omicidi, la riproduzione di episodi inevitabilmente già visti, l’uso convenzionale della musica, la reiterazione di Caterina Caselli qui riproposta con il brano È domenica mattina), ma è anche un doppio che può essere accolto con riflessi attuali poiché, fin dal titolo, manifesta l’intenzione di basarsi sui fatti per restituire alla memoria collettiva la triste vicenda di Piersanti Mattarella, fratello maggiore dell’attuale Presidente della Repubblica.

 

 

Ucciso la mattina del 6 gennaio del 1980, l’allora Presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella è stato il simbolo di un rinnovamento politico soffocato dalle logiche di potere che tenevano in pugno il malaffare siciliano. Democristiano in contrasto con gli uomini del suo partito per via delle sue aperture al Partito Socialista e al suo rapporto con Pio La Torre aveva inaugurato un processo di igiene e trasparenza politica indagando, per esempio, sugli appalti truccati per la manutenzione delle scuole. Si penserà al cinema di denuncia di Francesco Rosi, non casualmente citato dallo stesso Grimaldi come fonte di ispirazione. La scomposizione della linearità narrativa volta a ricreare quell’effetto straniante, labirintico e pieno di zone d’ombra e la sovrapposizione di intrecci noti e meno noti, ingredienti tipici del cinema di Rosi – si pensi all’uso che se ne fa in Salvatore Giuliano, Le mani sulla città o in Il caso Mattei – in una certa misura sono cifre presenti anche qui ma non compensano piattezza e povertà di prospettive dello sguardo. La commemorazione quarantennale dalla morte di Mattarella, la riapertura delle indagini ma anche un ritorno di certi estremismi che negli ultimi anni hanno inasprito ulteriormente la scena politica italiana rappresentano alcune delle ragioni che hanno convinto Grimaldi a realizzare il film assumendosi non pochi rischi. Il senso dell’intera operazione è fin troppo chiaro e, senza dubbio, consente allo spettatore di confrontarsi con un episodio da troppi dimenticato (a distanza di quarant’anni nessuna delle grandi città italiane ha dedicato una strada in memoria di Piersanti Mattarella). Si tratta quindi di un film che vuole dire le cose giuste, in cui le piccole storie incontrano la Storia: un tipico film-materiale teso a sintetizzare (talvolta semplificare eccessivamente) la rete di connessioni tra i poteri (si cita la politica romana, si mette in scena chiaramente la banda della Magliana, Sindona, ovviamente Falcone e Andreotti, ma anche un colloquio tra l’allora Sostituto Procuratore Pietro Grasso e Sergio Mattarella) finalizzato alla diffusione nelle scuole e alla rivalorizzazione della memoria, della giustizia e della verità. Non si tratta di un progetto banale ma, a causa della sua disinvoltura didascalica, risente di un sostanziale manicheismo che raffredda ogni emotività, smonta ogni processo di coinvolgimento da parte dello spettatore, di rado interpellato, chiude ogni possibile apertura o “complicazione”. Un contraccolpo che si acuisce soprattutto nel finale quando per tirare le conclusioni seppur parziali dell’intrigo, alla voce fuori campo del narratore si accompagnano circa sei minuti di cartelli esplicativi. Paradossalmente necessari ma dall’effetto soffocante.