Il grande spirito: elogio della follia (e del western)

L’anima un po’ western Sergio Rubini l’ha sempre avuta: la Puglia che ha raccontato nel suo cinema, dopotutto, è uno stato dell’animo, un luogo fisico ben definito, ma anche un ideale altrove, ricettacolo di miti e magie in cui ogni gesto diventa mitico e ogni scorcio si trasforma quasi in un canyon da cui ti aspetti di veder uscire un pistolero. Tutto però sempre a livello di suggestioni, frutto più che altro di una questione di sguardo capace di trasfigurare la realtà nell’epos. Almeno fino a questo Il grande spirito, dove il riferimento al genere americano per eccellenza si fa esplicito, anche se con modalità inattese. Nel raccontare la storia di un “indiano” (in realtà un emarginato che si crede un Sioux) in lotta con le brutture della modernità, Rubini apre infatti il suo immaginario alla tradizione, ma allo stesso tempo crea delle deviazioni e, soprattutto, “congela” l’azione in uno spazio circoscritto, che è estremamente duttile ma comunque definito: è quello della terrazza, in cima a un condominio, in cui si rifugia Tonino, piccolo rapinatore scalcagnato che ha avuto l’occasione della vita fregando il malloppo ai complici che ora gliel’hanno giurata. E quella terrazza, naturalmente, è anche il dominio di Renato, il Sioux che domina il paesaggio che una volta era tutta campagna e ora si affaccia sulle ciminiere dell’acciaieria.

Il luogo, mai dichiarato esplicitamente nella storia, ma evidente per chi lo conosce, è Taranto, città che da sola copre ampia parte delle istanze portate avanti dalla vicenda. Il racconto del piccolo indiano in lotta contro il Male diventa così la cronaca di una resistenza contro la tecnologia che si pensava fonte di progresso e che invece ha prodotto morte: come la ferrovia che in America è stata determinante nello sviluppo della civiltà yankee a scapito dei nativi, perché sempre di metallo si tratta, dopotutto. Rubini ha il merito di fare un film programmatico nello scopo, ma assolutamente non didascalico negli esiti (tutte le metafore sono taciute e lasciate alla discrezione dello spettatore più attento e consapevole). Il resto è coerente con il suo cinema, con questa fetta di realtà in cui agiscono figure divise e rapporti che si devono creare: come quello fra Tonino e Renato appunto, fra l’arte dell’arrangiarsi, incanaglita dagli eventi, contrapposta all’agire fanciullesco del folle che sogna la fuga in Canada e che, come nelle migliori fiabe, è davvero quello che più sa cogliere la verità inaspettata della vita. Tutto è, insomma, ancora una volta, questione di luoghi: non tanto perché la Taranto visualizzata da Rubini è un’interessante reinvenzione che unisce in un unico percorso il borgo antico, il rione Tamburi e la provincia, quanto perché la rivoluzione copernicana per effetto della quale il folle diventa lo sguardo lucido sul mondo, la ritroviamo nella scelta di ambientare l’azione nella “città di sopra”: la terrazza, confinante con tutte le altre, quasi a creare un percorso sopraelevato sui quartieri, diventa infatti una sorta di contraltare a quelle realtà sotterranee raccontate in opere come Subway o Mimic: un mondo trasversale e per questo più vero del vero, in cui agisce una sorta di micro-comunità di personaggi che Rubini esplora con il consueto sguardo goloso. C’è Renato, appunto, i parenti che gli vogliono sottrarre le proprietà, poi Teresa, la vicina che si prostituisce sognando l’occasione di fuga. E ci sono i criminali che imbastiscono sparatorie sui tetti per spartirsi il mondo “di sotto”. L’intero film diventa così una questione di geometrie e traiettorie, iscritto fra la verticalità delle ciminiere e l’orizzontalità dei terrazzi, in cui il sopra, il cielo, rimane l’obiettivo incontaminato di un’umanità che ha ormai infettato la terra: il bottino cercato da Tonino, non a caso, è sepolto e per questo irraggiungibile, ma sopra c’è la possibilità di scrivere un equilibrio nuovo. Nel trasfigurare la città e la fiaba in un percorso avventuroso in un modo alt(r)o, il film si fa il torto di non perseguire questa strada fino in fondo, magari ampliando questa realtà superiore: lo fa per stare addosso ai due protagonisti ovviamente, dove alla sobrietà più nervosa di Rubini fa da contraltare il donarsi irrefrenabile al ruolo di un Rocco Papaleo che aggiunge un’altra e più forte maschera al suo repertorio di personaggi larger than life. Nell’eccessiva durata dell’insieme, c’è dunque tanta materia in cui affondare le mani: ci sono corpi che sudano, si feriscono, sono violati, e c’è un’anima simboleggiata dal grande spirito del titolo (che ha un ruolo effettivo nella vicenda) e nel sogno. Un dualismo che si riflette in quello dell’industria, silenziosa eppure tangibile, concreta, come i suoi effetti invisibili ma tragicamente reali.